La frasca, un ovetto, un bicer, la trinità delle osmize tra Friuli Venezia Giulia e Slovenia

La mappa e la rete delle osmize aperte consegna ai curiosi gastronomici una delle più belle tradizioni di frontiera, tra Carso triestino e sloveno.

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Avete presente quei posti in cui si entra e ci si chiede qual è stata l’ultima volta in cui si è stati, anche se quella è la prima in assoluto? Quel posto in cui vi viene da chiamare la cameriera con il nome di vostra zia e vi sentite assolutamente a vostro agio a mangiare con i gomiti sul tavolo e le maniche della camicia arrotolate? Le osmize aperte oggi (ancora oggi) sono così. Un ambiente del genere, una sorta di finto dejà-vu famigliare. Uno di quei posti che in poco tempo diventa del cuore, dove le panche di legno e il grembiulone dell’oste trasudano rusticità da ogni macchia. Negli ultimi anni, le osmize sono diventate un’istituzione del Carso triestino, nella parte giuliana del Friuli Venezia Giulia, e per gli autoctoni dei luoghi sono al limite della sacralità: intoccabili, immodificabili, tradizionalmente eterne.

Occhio a chiamarle agriturismi, ristoranti o chioschi: le osmize sono osmize e basta.

L'identità di cosa sono le osmize è ben definita, risale alla cultura asburgica della fine del '700 che ogni abituale frequentante dell’osmiza saprà raccontare, in maniera più o meno esotica e fantasiosa. La storia narra che nel 1784 Maria Teresa d’Austria fece un atto rivoluzionario per l’economia dell’epoca, consentendo ai contadini dell’impero di poter vendere i propri prodotti direttamente all’interno delle loro aziende, per un massimo di 8 giorni l’anno, da cui il termine sloveno ocem, otto, e la conseguente declinazione in osmiza (osmica in sloveno). Una conquista per il mondo contadino, che in tempi non sospetti stava iniziando a vivere il prequel del blasonato Km0 contemporaneo. Parallelamente nasce lo storytelling, quasi mai sobrio, dei vari signor Pepi (nome d’arte del soggetto onnipresente e onnisciente di ogni osmiza in qualsiasi momento dell’anno) in grado di edulcorare la storia asburgica con aneddoti più o meno soggettivi, nella maggior parte dei casi legata all'ipotetico grado di parentela della propria famiglia con l’imperatrice e all’autoriconoscimento della paternità della prima osmiza triestina.

Dopo oltre due secoli, le cose sono cambiate. La gestione e la burocrazia delle osmize è regolamentata da numerose delibere comunali, ma la qualità dei prodotti e gli ambienti spartani sono rimasti intatti. Così come permanenti e inviolabili sono rimasti i 3 simboli madre di ogni osmiza: la frasca de vin, un mazzo di edera secca appesa a qualche metro dall’entrata di ogni osmiza per segnalarne la presenza, l’ovetto e il calicetto. Dove l’ovetto sta per ovo duro, l’uovo sodo, uno dei pochissimi alimenti cotti che si possono trovare in menu, oltre allo strudel, e il calicetto, in dialetto bicer, è solitamente pieno di vino. L’anima pulsante sta nella veracità dei taglieri, nelle tavole di legno imbandite di salumi e formaggi di produzione domača (casalinga in sloveno), dalla lonza alla pancetta al prosciutto crudo fino al formaggio liptauer, con qualche sottaceto di contorno. Un quadro arcimboldesco digeribile soltanto grazie a sapienti gollate di quartini di vino orgogliosamente autoctono, quando rosso Terrano e Refoso, quando bianco Vitovska e Malvasia Istriana. Dura vita per i veggie lovers e gli astemi, ça va sans dire non sono visti di buon occhio.

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Kevin Turcios/Unsplash

Un po’ per leggenda e un po’ per storicità, la maggior parte delle osmize (sul territorio carsico se ne contano circa 50) non sono mappate, o comunque non in maniera definitiva. Vanno scoperte, trovate per sentito dire, viste per caso dietro a qualche muretto a secco, come per mantenere una dimensione gelosamente circoscritta, familiarmente delimitata. Negli ultimi anni qualche giovane illuminatom probabilmente spinto dalla bontà d’animo nell’aiutare qualche amico forestiero, ha ben pensato di creare la rete delle osmize aperte, grazie alla quale anche i turisti oggi possono trovare l’osmiza più vicina raccapezzandosi tra stradine dai nomi improbabili e GPS parlante lingua slovena. Prima di lasciarvi imbarcare verso i lidi carsici, un ultimo suggerimento: nelle osmize si parla solo e rigorosamente in dialetto, un patois intrecciato tra triestino e sloveno. Nel caso non vi sentiate ancora pronti per affrontare idiomi stranieri, nema problema: riempitevi il bicer. Dopo un paio di quartini, parlerete un triestino perfetto.

(Foto di apertura Klara Kulikova/Unsplash)

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