Perché nell’horror il cibo siamo noi?
Il cibo è un elemento profondamente antropologico, ci dà nutrimento, ci permette di costruire relazioni sociali e ci conferisce anche un'appartenenza territoriale a volte. Ma cosa succede quando siamo noi a “sentirci cibo”?
“Mangiare o essere mangiato” – l’essere umano ha sempre percepito nella natura che lo circondava questa dura regola come unica possibile e l’ha introiettata in molti più aspetti della propria vita di quanti siamo disposti ad ammettere. Tant'è che viviamo in una società dove spesso il più forte mangia il più debole.
Il ragionamento a questo punto assume delle note quasi horror e ci costringe a porci una domanda fondamentale che sappiamo esserci, ma cerchiamo di non vedere: e se il cibo fossimo noi?
Il cibo è un elemento profondamente antropologico, ci dà nutrimento, ci permette di costruire relazioni sociali e ci conferisce anche un'appartenenza territoriale a volte. Spesso quindi si parla della gioia che il cibo ci trasmette e sappiamo quanto le emozioni siano fondamentali per aiutarci a capire l’essere umano. È interessante provare a “sentirci cibo” per capire che cosa racconta di noi questa prospettiva, attraverso la paura. E dove mai potremmo andare a cercare queste storie terrificanti se non nel folclore popolare, nelle fiabe e nel genere horror?
Sono infatti i mostri, i cattivi e le creature della notte che pasteggiano con gli esseri umani.
Le streghe, per esempio, sono da sempre note per essere delle grandi divoratrici di bambini. Pensiamo alla strega di Hänsel e Gretel che tentò di cucinare i fratelli nel suo forno a legna. Baba Yaga, invece, una figura potentissima e temutissima dell’immaginario slavo, decorava l’esterno della sua casa con le ossa delle sue vittime. Persino nella loro forma più pop troviamo lo stesso racconto delle streghe: per esempio, le sorelle Sanderson della saga ‘Hocus Pocus’ si nutrono della giovinezza e della bellezza dei bambini per riacquistare le loro.
La strega è il racconto oscuro che è stato costruito sulla donna che la società percepisce come “disubbidiente” e per questo viene punita tramite una mostrificazione.
Se il compito di una donna dovrebbe essere quello di sposarsi e avere figli, è evidente che la sua forma antitetica sarà una donna sola che uccide quelli degli altri.
Siccome i mostri raccontano le nostre paure e colpe, è chiaro che queste creature sono tutte profondamente umane. Il terribile pasto della strega rappresenta da sempre il timore di una cattiva maternità, assume una connotazione simbolica quasi blasfema in una società in cui, purtroppo, si racconta la figura della madre come quasi divina e come obiettivo ultimo di ogni donna.
Con il vampiro invece, la vittima umana che diventa cibo ha un valore completamente differente e forse anche inaspettato. Una delle tante connotazioni che possiamo usare con questa nota creatura della notte, per come la raccontiamo da Bram Stoker in avanti e che forse meglio ci aiuta a capire il suo rapporto col “cibo”, è quella di stampo queer. Con la fine dell’ottocento, al termine della rigida e austera era vittoriana, la gente iniziò a riscoprire il proprio corpo. Con questa libertà riacquistata nacque anche la voglia di raccontare il desiderio di una sessualità nuova.
Il vampiro, infatti, noto per le sue doti ipnotiche e seduttive, ma soprattutto per succhiare il sangue delle proprie vittime, è la rappresentazione di un nuovo modo di percepire il sesso. In cui i ruoli non esistono e dove tutto è possibile. Dove anche le vampire più potenti mai raccontate, come ad esempio Carmilla di Sheridan Le Fanu, hanno un ruolo di soggetto e addirittura penetrano i loro amanti con i canini per far di loro un pasto. Dove la carne viva del sesso è sempre fredda e non-morta.
Le storie dell’orrore, spesso ci hanno parlato della nostra paura di essere cibo facendo divorare l’essere umano da ogni genere di creatura. Oggi forse potrebbe essere ancora più interessante portare la nostra attenzione su un altro tipo di narrazione terrificante, dove non ci si chiede più se siamo chi mangia o chi viene mangiato, ma piuttosto ci si chiede se l’intera narrazione dicotomica di preda e cacciatore abbia effettivamente senso. Se debba essere ancora reiterata.
Pensiamo a film come ‘Society’, ‘Il Buco’ o ‘The Menu’ dove il cibo non è più umano (o non totalmente...), ma viene riconosciuto come simbolo di potere. Chi ha cibo ha avuto i mezzi per poter prevalere su qualcun altro. In questi casi non è più il cibo ad essere al centro della questione, ma è l’atto in sé di divorare. Il mostruoso quindi non è più una percepita degenerazione dell’individuo, ma l’incapacità umana di trovare un compromesso al di fuori della dicotomia “mangiare o essere mangiati”.
E questa sì che è una conclusione terrificante, perché ci rende tutte figure un po’ mostruose, un po’ inclini a fagocitare chi o cosa ci sta accanto pur di ottenere quello che vogliamo. Banalmente, anche solo aver sviluppato una dieta a base di carne animale ci dimostra che crediamo in un mondo dove è giusto che il più forte prevalga sul più debole.
La consapevolezza di essere, almeno un po’, mostri divoratori non deve essere una condanna, quanto uno stimolo.
Chissà, forse troveremo un altro piatto a cui abbinare il nostro bicchiere di Chianti.