Intervista a Francesca Grazioli, autrice di Capitalismo Carnivoro. Studiosa dell’industria alimentare, attualmente lavora presso il centro di ricerca Bioversity International, dove si occupa di cambiamento climatico e sicurezza alimentare.
“Mangiare carne non è più una scelta innocente né tanto meno innocua. Smascherare i processi economici che si nascondono dietro al gesto più abituale e quotidiano dei nostri pasti significa ridefinire chi siamo e in quale società scegliamo di abitare.” Capitalismo Carnivoro, Ed. Il Saggiatore.
Mentre l'Unione Europea legifera sulla carne coltivata e sugli allevamenti intensivi, abbiamo intervistato Francesca Grazioli, studiosa dell’industria alimentare, che attualmente lavora presso il centro di ricerca Bioversity International, dove si occupa di cambiamento climatico e sicurezza alimentare. Grazioli nel 2022 ha pubblicato Capitalismo Carnivoro, un libro “che cambierà il vostro modo di pensare e mangiare la carne”. Andiamo a scoprire perché.
Perché il tuo libro si chiama Capitalismo Carnivoro?
Il nome deriva dal fatto che sia il sistema Capitalistico sia quello dell’industria della carne si sono nutriti l’uno dell’altro per poter crescere sempre di più. Uno ha fornito le basi per la standardizzazione, la meccanicizzazione, la divisione del lavoro e le strategie per massimizzare l’estrazione di valore da qualsiasi sua componente, l’altra ha in cambio garantito una tipologia di cibo carica di valore simbolico a prezzi sempre più bassi, in modo da poter al tempo stesso silenziare una delle voci più costose del capitalismo stesso: i salari dei lavoratori. Il sistema industriale della carne che permette la produzione di cibo a basso prezzo, non costo, non è solo un’emanazione del sistema ma parte generativa del sistema stesso. Generata e generante. Perché proprio nel mantenimento dei prezzi bassi del cibo, tutto può essere a buon mercato, i salari, le vite.
Quanto l’industria della carne impatta a livello di sostenibilità ambientale?
Impatta su una moltitudine di livelli. Dai Gas a Effetto Serra prodotti dalla fermentazione enterica dei milioni di bovini che alleviamo per le loro carni e per i loro latti, ai liquami pieni di componenti tossiche che si infiltrano nelle falde acquifere, fino alla distruzione della Foresta Amazzonica per far spazio alle coltivazioni di soia che a loro volta servono come mangime per far crescere a ritmi sempre più asfissianti i corpi di colori tenuti negli stretti spazi degli allevamenti intensivi.
Come è possibile cambiare il modo di mangiare e di pensare la carne?
Come prima cosa, togliendo il velo di invisibiltà di cui l’abbiamo ammantata. Mettendo in discussione il sistema simbolico che rappresenta- come quello della presunta virilità legata al suo consumo, oppure chiedendoci se e’ ancora il caso di considerare normale un sistema basato sul sistematico sfruttamento dei corpi animali umani e non al loro interno, e dal tale impatto climatico . Ne abbiamo davvero bisogno in queste modalità, qui e adesso?
Quanto impatta un allevamento intensivo, rispetto ad altre forme di inquinamento ambientale, responsabili del cambiamento climatico e il peggioramento della salute del genere umano e animale?
L’agricoltura è l’attività umana a più alto impatto ambientale, essendo responsabile di circa il 23% delle emissioni ad effetto serra, che come sappiamo sono le cause principali del surriscaldamento globale. E questo già sembra un paradosso, perche noi siamo abituati a pensare all’agricoltura come una pratica rurale, antica, tradizionale, in piena simbiosi con la natura e i suoi ritmi. E difficilmente pensiamo al problema climatico come uno degli atti centrali della crisi climatica.
Come si spiega? L’agricoltura di oggi e’ un’agricoltura intensiva, ossia, che utilizza in maniera intensa una serie di input, in modo da massimizzarne la resa a breve termine. Questa tipologia di agricoltura, spesso monocoltura, e’ ad esempio fortemente legata all’industria fossile. dai fertilizzanti chimici, che si estraggono da derivati del petrolio, all’utilizzo di macchinari sia per coprire queste distese immense - perché il modello funziona se si ha economie di scala, ossia se si espande la produzione al massimo, poi nei trasporti del cibo.
Esempio: in Inghilterra lo spostamento di cibo in entrata e all’ interno del paese inquina quanto il traffico di 5.5 milioni di autovetture all’anno. Poi ci sono la plastica e il polistirolo degli imballaggi anche questi derivati del petrolio.
E per quanto riguarda la carne, una delle macchie indelebili del sistema industriale della carne è che, nonostante i tentativi di automatizzazione assoluta, di controllo di ogni variabile, dall’esposizione alla luce, all’umidità dei capannoni, a linee genetiche sempre più standardizzate per permettere totale omogeneità nel prodotto finale, si deve scontrare con un essere vivente, che nonostante tutto, riesce a sfuggire dall’essere inquadrato come l’ennesimo bullone della macchina del profitto.
Quale immagine l’industria della carne cerca di venderci del disegnare gli animali come “felici”?
Il mondo della carne è un mondo più simile a un horror a cui è bene prepararsi. L’industria della carne non fa altro che aiutarci a nascondere anche a noi stessi l’inequivocabile fatto che il boccone di carne di fronte a noi, un tempo era un animale vivo.
Si fa riferimento a un passato idiliaco, rurale, in cui natura e esseri umani erano in armonia. Gli animali della fattoria hanno un rapporto di affetto nei confronti del fattore, che al momento necessario, li sacrificherà per un bene superiore. Quindi non solo la morte è l’aspetto che viene ostracizzato, ma pure le condizioni di vita vengono rimosse. Non è un caso che vi sia una resistenza totale a rilasciare immagini e video di cosa avvenga all’interno degli allevamenti e macelli industriali.
Cosa sono le norme cuccagna che abbiamo nei nostri supermercati?
Il risultato di un perfezionamento dell’industria alimentare, in grado di rinnovare i proprio prodotti continuamente, giocando principalmente sui tre capi saldi di sale, zuccheri e grassi.
Da dove viene oggi la maggior parte del nostro cibo, a partire dalla carne? Cosa sono i CAFO?
Il passaggio da fattoria a fabbrica. CAFO, Concentrated Animal Feeding Operation, altrimenti nota come operazione di alimentazione animale concentrata, sigla dietro cui si celano gli allevamenti intensivi. Letteralmente, spazi dove una moltitudine di animali viene, più che allevata, alimentata, allo scopo di produrre la maggior massa possibile nel minor tempo necessario. Concentrati in uno spazio definito, ogni aspetto della loro esistenza è studiata e controllata nei minimi dettagli. Coloro che si muovono, o meglio stanno, all’interno di questi spazi non sono veri e propri esseri viventi, ma commodity, merci che conosceranno la libertà di movimento solo quando verranno sparpagliati sul mercato in infiniti pezzi, liberi di propagarsi come fuochi d’artificio, ovunque ci sia un acquirente interessato.
Cosa poco nota. Quali sono le 3 imprese che insieme muovono l’80% dei bovini del mondo?
Al momento i tre nomi sono Tyson Foods, Cargill o la sigla jbs. Queste tre imprese, insieme, muovono l’80% dei bovini nel mondo. Tre imprese. Il pensiero della mandria titanica che comandano mette le vertigini; ancora di più se si considera che i loro nomi sono sconosciuti ai più, e che dalle loro scelte dipendono le vite di milioni di persone che sopravvivono con ciò che loro produco. L’industria della carne ha giovato di grandi investimenti, economie di scala, sgravi fiscali e altre concessioni pubbliche che nei decenni hanno falsato le regole del gioco della concorrenza.
Che il regno della carne sia intensivo e tecnologico è evidente dalla quantità dei suoi prodotti che inondano ogni latitudine mondiale. Ma un aspetto che lo rende diverso da altri settori agroindustriali è un altro ingrediente, dato dalle coordinate in cui si è mosso fin dai suoi albori, quelle verticali e orizzontali del suo processo di concentrazione. Le chiavi del suo impero oligarchico si trovano qui.
Cosa intendi per livelli di nascondimento della morte in ogni passaggio dell’industria della carne?
Dall’immagine della fattoria data ai consumatori, all’architettura dei macelli stessi, alla terminologia che si utilizza per non far pensare alla morte. Infatti, se la violenza e lo sfruttamento diventano naturalizzati e normalizzati, escono dal nostro campo d’attenzione. Gli animali da allevamento sono pezzi, unità, il cui dna è codificato e oggetto stesso di scambio, vendita, brevetti. Ma anche le pratiche devono essere definite di conseguenza. L’addetto all’uccisione dei polli che sopravvivono al mattatore automatico non viene più definito backup killer, assassino di riserva, ma knife operator, con una traduzione simile a «operatore di coltello».
Ai membri della National Cattlemen’s Beef Association viene consigliato di sostituire il termine macellare con mietere o processare, racconta la scrittrice Melanie Joy nel suo libro “Perché amiamo i cani, mangiamo i maiali e indossiamo le mucche.”
Cosa pensi della carne coltivata? Che cosa di intende? Potrebbe avere un impatto positivo sul cambiamento climatico e sul benessere animale? Perché viene così denigrata, vietandone la produzione o la commercializzazione o l’importazione e addirittura la ricerca nel nostro Paese?
Questa meriterebbe un’ intervista a parte. Ti rispondo nel merito del perché è tanto denigrata. Perché al contrario dell’immagine falsa che l’industria ci vuole dare di tradizione e natura, la carne coltivata è indissolubilmente legata all’idea di artificialità Non puo esistere senza l’intervento umano – anche se questo si potrebbe dire anche delle varietà di pollo dai petti esplosivi che non permettono nemmeno loro di camminare-. Il senso di repulsione e’ un sentimento molto forte, difficile da sopprimere proprio perche’ risultato di milenni di evoluzione. La carne coltivata non e’ altro che carne, sono cellule prelevate dall’animale e fatte crescere in un liquido nutritivo, inserite in bioreattori fino a che non raggiungono la massa necessaria. Eppure, il suo generarsi in un laboratorio, crea ancora un cortocircuito paradossale, proprio quello che non riusciamo a fare quando ci troviamo davanti a un prodotto dell’industria.
Come mettere in discussione il tepore in cui siamo immersi?
La carne diviene qui un nodo vischioso dove l’ambiente, la salute, le coronarie che si intoppano, il palato che sorride, il suolo che si contamina, le comunità indigene dell’Amazzonia, le falangi mozzate di lavoratori in nero che saltano come i becchi troncati di milioni di polli, le cene con un capofamiglia, gli antibiotici pagati in farmacia, i campi monocromi a mais della pianura padana, i volti scheletrici della fame, si condensano nella voce di un menù di un qualsiasi ristorante del mondo. Questo non vuol dire che dobbiamo arrenderci di fronte alla complessità di questi temi. Anzi, tutt’altro.
Significa che vi è una moltitudine di approcci in cui ognuno può contribuire come meglio crede e può, alcuni nella direzione del consumo, altri nell’attivismo politico, altri ancora nell’esercizio di una maggiore compassione, altri nella protesta o nell’entrata dei salotti politici. Sta a noi decidere per quanto vogliamo ancora che il capitalismo sia l’ingrediente principale e taciuto dei nostri pasti.