MENA’s 50Best: cosa abbiamo capito della cultura gastronomica in Medio Oriente e Nord Africa

La classifica MENA’s 50 Best, che premia i 50 migliori ristoranti in Medio Oriente e Nord Africa, è stata svelata lo scorso 7 febbraio ad Abu Dhabi, nella maestosa sala da ballo dell’hotel Conrad Ethiad Towers, simbolo della capitale emiratina.

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“Era dal 2013, anno del lancio dei LATAM 50 Best, il ranking dedicato all’America Latina, che il gruppo William Reed non annunciava una tale novità”, ha spiegato William Drew, Director of Contents dei 50 Best, in conferenza stampa. “L’eccitazione, del resto, è palpabile: siamo felici di essere riusciti a puntare finalmente i riflettori su questa regione ancora sconosciuta alla guide gastronomiche,” ha poi concluso.

Un risultato non da poco se si considera che “classifiche come quella dei 50 Best sono importantissime per far conoscere al grande pubblico, realtà gastronomiche che altrimenti passerebbero inosservate. Basti pensare al Celler de Can Roca che, da piccola attività a conduzione familiare si è ritrovato nel 2013 - anno della prima consacrazione - ad essere uno dei ristoranti più richiesti al mondo con un sistema di prenotazione praticamente fuori uso”, ha puntualizzato sorridente Joan Roca, membro del prestigioso circolo Best of the Best, composto da tutti i leggendari vincitori della classifica mondiale.

Per l’edizione di quest’anno, è dunque 3 Fils, piccolo ristorante situato al Jumeirah Fishing Village di Dubai, ad ottenere il riconoscimento come miglior ristorante di Nord Africa e Medio Oriente. Aperto nel 2016 dai due imprenditori emiratini Ahmed Abdulhakim e Adnan Alim, insieme allo chef singaporiano Akmal Anuar, questo accogliente locale dagli interni curatissimi, l’equipe cosmopolita e i piatti di cucina asiatica dai forti influssi giapponesi, ha saputo sbaragliare la concorrenza nonostante la mancanza di una licenza per la vendita dell’alcool e le scelta di non prendere prenotazioni. “Una decisione che verrà mantenuta, confidando nella comprensione dei nostri clienti”, afferma uno dei proprietari. In seconda e terza posizione, seguono Zuma Dubai, indirizzo emiratino della famosa catena di ristoranti giapponesi cofondata a Londra da Rainer Becker e Arjun Waney, già classificatosi 17° ai 50 Best Bars, e Ocd Restaurant, una particolarità di Tel Aviv gestita dal giovane talento israeliano Raz Rahav.

Un podio probabilmente più che discutibile ma che è di certo indicativo dello stato in cui versa il panorama gastronomico del tetto MENA. Se si guarda ai numeri, infatti, il primo dato che balza all’occhio è che dei 19 paesi in lizza, solo 10 sono riusciti a classificare tra uno e sei ristoranti - Tunisia, Kuwait, Qatar (1) Bahrain (2), Marocco, Giordania (3), Egitto (4), Arabia Saudita, Libano (5) e Israele (6) - mentre oltre un terzo dei ristoranti in lista, 19 per la precisione, ha sede negli Emirati Arabi Uniti, i quali hanno letteralmente dominato la classifica, affermando ancora una volta il proprio monopolio turistico sugli altri paesi del Golfo Persico. Un vero peccato, soprattutto per paesi come Algeria, Iran, Iraq, Oman, Palestina, Siria e Yemen che, sicuramente a causa delle turbolenze politico-sociali che gravano sulla vita quotidiana e di riflesso sul turismo, non sono rientrati in classifica nonostante i bagagli culinari particolarmente interessanti. Di certo, un’occasione mancata per il comitato organizzativo dei 50 Best che, da sempre attento alle tematiche sociali che ruotano intorno alle realtà gastronomiche di ogni Paese, avrebbero potuto dare voce a chef e imprenditori sconosciuti ai più.

Ma non è tutto. Un altro aspetto molto interessante è che, mentre la lista mondiale svelata ad Anversa lo scorso Ottobre ha premiato sostanzialmente concept unici, espressione del lavoro e della personalità di un particolare chef o gruppo di lavoro, il 36% dei ristoranti in classifica MENA fa invece parte di catene di ristorazione quali Zuma, Coya o LPM. Un risultato “aggravato” dal fatto che circa 30 dei 50 ristoranti classificati non propongono esperienze gastronomiche che richiamino immediatamente all’identità dello chef o alla cultura del paese in cui si trovano. Un dato, questo, che varia molto a seconda delle nazioni (Marocco, Egitto, Libano e Israele, ad esempio, hanno onorato le proprie significative storie culinarie) e che lascia facilmente intendere quanto la cultura foodie sia ancora un concetto in via di sviluppo in una nazione giovane e altamente multiculturale come quella degli Emirati Arabi Uniti, che sembra avere invece un debole per la cucina asiatica e le steakhouse.

L’unica statistica che purtroppo non sorprende più riguarda, come sempre, le donne. Nonostante i premi speciali conferiti a Sahar Parham Al Awadhi (Best Pastry Chef), Tala Bashmi (Best Female Chef) e Neha Mishra (One to Watch per il suo ristorante Kinoya), la quota rosa per i ristoranti in classifica raggiunge a malapena il 4%. Tuttavia, sono proprio i premi speciali le uniche scelte che sembrano essere state condivise all’unanimità dai presenti alla cerimonia. Kinoya, Fusion by Tala, i vari Tawlet Farmer’s Kitchen aperti in tutto il Libano da Kamal Mouzawak, vincitore del premio Foodics Icon Award, o ancora Trèsind Studio (Art of Hospitality Award) del giovane talento indiano Himanshu Saini, sembrano infatti essere gli unici ristoranti realmente in grado di ottenere un posto tra i primi 100 ristoranti della classifica generale del prossimo anno.

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Thomas Collins/The World’s 50 best

Una menzione speciale va infine anche a Fulvio Opalio, giovane chef torinese alla guida delle cucina del Borro Tuscan Bistrot a Dubai, unico italiano in classifica, piazzatosi in undicesima posizione. Stranamente non pervenuti i ristoranti dei big Massimo Bottura (Torno Subito), Heinz Beck (Social by Heinz Beck) e Niko Romito (Il ristorante) a Dubai o Massimiliano Alajmo (Sesamo) a Marrakech, e neppure i meno mediatici giovani talenti Giovanni Papi (Armani Ristorante), Giuseppe Pezzella (Cinque at Five Palm) o Domenico Santagata (Alici Dubai), molto apprezzati nei loro paesi di adozione.

Insomma, una prima edizione che la dice lunga sulla scena culinaria dei diversi paesi e sull’effetto che la pandemia ha avuto sul turismo gastronomico di ciascuno e, più in generale, dell’intera area MENA. Con la speranza che, riaperti tutti i confini e confrontati i risultati con gli ingressi nella prossima classifica mondiale, gli chef e i ristoratori della zona decidano di puntare ancor di più sull’individualità, la creatività e le cucine identitarie, e che i 250 votanti siano di conseguenza pronti a dar loro più valore.

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