Tutto quello che sapevi sulla carbonara (e sulla pasta) è falso, o quasi

La storia della pasta ha ammesso interpretazioni, varianti e fantasia: perché non dobbiamo considerarli errori

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Italians mad at food: gli americani non saranno dei grandi gourmand, ma verso gli italiani coltivano un mix equilibratissimo di ammirazione e ironia. Stereotipata? Nemmeno troppo. Se anche solo una volta avete condiviso la vostra indignazione per blasfemie nei confronti della carbonara preparata con pancetta, parmigiano, verdure e in versione vegana, o vi siete risentiti nei confronti di piatti come le fettuccine Alfredo e gli spaghetti with meatballs, rientrate perfettamente nel gruppo di gastronazi della presunta autarchia culinaria. Perché poi arriva la Storia, col suo carico di fonti accertate e decifrate, e sbatte in faccia a tutti la galassia di fake news, fattoidi e leggende in cui ci siamo consapevolmente immersi per formare la nostra identità gastronomica.

La verità, come sempre, è complessa: la storia culturale della gastronomia è piena di stratificazioni, prestiti, adattamenti, modifiche e migrazioni di ingredienti da un lato all’altro del mondo.

La amatriciana delle origini non contemplava il pomodoro, le lasagne nascono con tutta altra struttura, i ragù più celebri d’Italia (il napoletano e il bolognese) partono da principi simili per differenziarsi strada facendo, e la genovese sigla a Napoli gli scambi marittimi tra le due città prima di codificarsi in via definitiva. Ma soprattutto, la carbonara è italo-americana. E nelle sue prime attestazioni registrate dai libri, di pecorino 100% non si parlava proprio, anzi. Sbam. Di pastori sugli Appennini e altre romanticherie, nelle fonti non c’è traccia alcuna. Sgomenti? Ottimo. Perché non è finita qui. Il capitolo sulla tradizione più controversa con sui si riempiono la bocca gli storytellers dell’ultimo minuto è quello che sconfessa una narrazione tanto affascinante quanto zoppa, ma tutto il lavoro encomiabile di Storia della pasta in dieci piatti di Luca Cesari (Il Saggiatore), andrebbe messo di diritto nelle biblioteche culinarie di ogni appassionato, curioso, gastronomo o foodie che si fregi di definizione. Fare il debunking dei tanti miti su cui si è costruita la storia culinaria italiana significa restituire alla storia del cibo la sua reale complessità, i suoi viaggi internazionali, la mappa degli scambi di culture, la sensibilità di singoli pionieri e pioniere che hanno saputo maneggiare novità e ingredienti sfidando persino le concezioni delle varie epoche. Succede con ogni alimento e non fa eccezione la pasta, nel caso degli italiani, della quale si sa tanto e altrettanto si continua ad imparare. È un’evoluzione di conoscenze, un arricchimento dei quadri generali che non cerca paternità di ricette conosciutissime, ma riaccende il calderone degli eventi paralleli e delle possibilità multiple. Niente assolutismo, anzi: ma un’indagine su come la standardizzazione di un canone da rendere comune imponga scelte che tengono per forza fuori alternative. E spesso le stesse fonti che dovrebbero confermare granitiche certezze sono basate su leggende, vanno approfondite e conosciute, e il lavoro si complica piacevolmente. A Storia della pasta in dieci piatti e al suo garbo ironico va il merito di riconoscere i giusti meriti ai grandi chef che hanno saputo costruire e codificare i pilastri portanti di un’intera cultura. In nome di un enorme prospettiva: la “formazione del gusto” è un fatto culturale, prima singolare poi collettivo. Si impara per gradi. Anche a ripensare certe credenze gastroculturali.

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