Chiara Pavan: Il significato del coraggio

Un viaggio attorno al mondo della giovane Chef veronese che pensa alla sostenibilità dell’alimentazione come perno del proprio lavoro, ponendo la creatività al servizio della materia.

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Mazzorbo è un’ isola veneziana, collegata alla celebre Burano da un ponte. Un luogo speciale, corroborato da una storia antica ed uno spirito di adattamento dovuto alla geografia peculiare.

Ed è anche l’isola che ospita la Tenuta Venissa di Matteo Bisol dove la Chef Chiara Pavan, ed il partner Francesco Brutto, esprimono la propria identità culinaria. Il progetto nasce nel 2002, quando Gianluca Bisol (padre di Matteo) individua in quest’isola un piccolo terreno che ospiterà l’antica varietà di uva Dorona di Venezia, capace di adattarsi alle condizioni estreme della laguna. Dopo periodi di vita sotto l’occhio attento di sapienti Chef come Paola Budel ed Antonia Klugmann, il ristorante trova oggi, in Chiara e Francesco, la sua nuova identità. Fresca di stella verde Michelin, Venissa, è uno di quei luoghi magici che aiutano a riflettere e mutare. Un processo “Radilocale” (radicalmente locale) che probabilmente dovrebbe rappresentare l’unica ristorazione possibile.

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Come sei arrivata a Venissa?

Nonostante abbia intrapreso anche altri tipi di studio, la cucina è sempre stata la centralità dei miei pensieri. Durante l’università iniziai a lavorare come aiuto cuoca in un’osteria per poi, dopo la conclusione dei miei studi in filosofia, proseguire la formazione professionale ad Alma. Successivamente ho intrapreso dei preziosissimi stage presso le corti di importanti Chef quali Valeria Piccini e Massimo Bottura. In seguito al mio incontro con Francesco mi sono trasferita a Venissa, per non muovermi più. Sono approdata qua molto presto rispetto alla mia esperienza, ma con un percorso anche diverso, che mi fa affrontare la professione in modo particolare e molto personale.

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Cosa comunicate attraverso la vostra cucina?

La nostra mente è al servizio del territorio. Usiamo quasi esclusivamente prodotti provenienti da queste zone o dal nostro orto e, sebbene possa sembrare limitante, è il limite stesso che alla fine costringe alla creatività continua, al dover reinventarsi con i medesimi ingredienti. Il discorso si protrae al di là della stagionalità e sconfina nell’economia del quotidiano. Molto è auto-prodotto, abbiamo radicalmente eliminato la carne ed usiamo pesci meno commerciali. Le scelte che alla fine andiamo a fare sono specchio del luogo ma anche del tempo, dell’ inarrestabile mutamento climatico. Diamo vita ad ogni parte di ogni singolo prodotto che lavoriamo e non potrebbe essere altrimenti, non si può più prescindere dalla sostenibilità. Sono profondamente convinta che questo sia l’unico modo di essere cuochi contemporanei, di ricevere una soddisfazione ed un appagamento personale, al di là del fattore economico e delle difficoltà che tale scelta porta ad affrontare. Una “Cucina ambientale” che pone stagione e biodiversità locale al centro di tutto.

Il tema della “sostenibilità” è spesso abusato per convenienza mediatica. Come affrontate praticamente il problema dell’impatto ambientale?

Ci sono tanti aspetti, non necessariamente banali, da tenere in considerazione. A parole è facilissimo essere sostenibili, ma non basta fare la raccolta differenziata. Partiamo dall’assenza di disponibilità delle materie prime, che fornitori vari e grande distribuzione invece garantiscono: questo porta ad un necessario cambio di menù quasi quotidiano, che può differenziarsi per due tavoli ospitati a pochi giorni di distanza. Questo è un esercizio creativo non da poco. Continuiamo poi sulla futura rimozione delle tovaglie, non derivata da mode o proiezioni estetiche, al fine unico di risparmiare quantità indicibili di acqua per i lavaggi. E terminiamo con l’utilizzo di energia proveniente da fonti rinnovabili e col grande argomento plastica: abbiamo infatti eliminato permanentemente l’utilizzo di plastiche usa e getta quali pellicola e sacchetti sottovuoto, con un conseguente magistrale riadattamento del nostro approccio alla lavorazione degli ingredienti. Bisogna trattare diversamente il fresco, ingegnarsi attraverso la fermentazione, la conservazione sott’olio e stoccare dunque in modo alternativo. Ma abolire la plastica significa anche lavorare con persone illuminate che non la usano nei propri imballaggi, altra selezione particolarmente minuziosa. Poi c’è il compostaggio dei rifiuti organici che noi gestiamo spesso nel nostro campo, creando circolarità.

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Quanto ancora impatta l’essere donna nella ristorazione contemporanea?

Spesso mi trovo a dire quanto oggi le donne vengano cercate quasi più degli uomini, vengano viste come dei “Panda” in estinzione. Andando, di fatto, a diradare quel lavoro sulla parità di genere tanto duramente portato avanti negli ultimi anni. In passato ho in effetti avuto qualche problema. Certo è innegabile come la durezza che giocoforza contraddistingue questo mestiere, sia in termini di intensità che in termini di bilanciamento con la propria vita privata, renda il settore ancora prepotentemente maschile. Non si possono dimenticare le caratteristiche fisiche differenti dei due sessi, così come le differenti necessità, che non sono stereotipo o generalizzazione ma comunque retaggio storico ancora esistente. Mi viene da pensare al ruolo della madre, ad esempio. Probabilmente l’equilibrio passa attraverso il cambiamento della ristorazione stessa.

Come vorresti cambiare il mondo?

Non so quanto si possa cambiare effettivamente la situazione in tempi brevi: molte persone consumano carne industriale quotidianamente, così come molti “amanti degli animali” mangiano sushi divenendo tragicomici complici della desertificazione delle acque. Però, in attesa che dai piani alti qualcuno riesca davvero a regolamentare un nuovo sistema produttivo, mi piacerebbe arrivare alle scuole. L’idea di poter donare tutti i miei saperi a generazioni di futuri adulti, perno di una Terra più sostenibile, mi renderebbe piena di gioia. Parlare nelle scuole, fare laboratori, capire come essere sostenibili nella praticità delle azioni quotidiane e non solo professionali. L’educazione è forse l’unico vero investimento a lungo termine per assicurarsi il cambiamento: non possiamo perdere anche questa occasione.

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