Canto di Natale nel cuneese, o cosa si mangia in Piemonte a Natale

Gli antipasti, i primi, i secondi (non toccati) e i rituali del pranzo del 25 dicembre tra parenti, russate e giochi.

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Se chiedete a Google cosa si mangia in Piemonte a Natale, vi dirà che è previsto il vitello tonnato, l’insalata russa, la fonduta, i peperoni con la bagna cauda, i tajarin al tartufo, i ravioli al plin, il fritto misto, il brasato al barolo, il cappone, il bonnet, la panna cotta e tutti quei piatti che vi aspettereste in una trattoria. Ma Google ha torto. È vero che ci piacciano i pranzi a più portate della durata di circa cinque ore, è vero che ci sarà una versione della pasta in casa fatta dalla nonna (ma senza tartufo), è vero anche che se qualche peperone al forno raggiungerà la tavola sarà considerato un intermezzo, non una vera e propria portata. Soprattutto, nella vita vera la presenza dell’insalata russa e le comparsate del vitello tonnato sono possibili, tuttavia saltuarie ed alternate negli anni. È indiscutibile il cappone, che ritorna in più modi, ma tutto il resto via, che ci sono leggi e ricette molto più complicate per questa festicciola dicembrina.

Premetto che, dopo anni di Natali sopravvissuti nella provincia cuneese, mi limito con questa guida a orientarvi in uno dei vari Natali piemontesi possibili, uno fortemente influenzato da uno sproporzionato numero di parenti che cucina benissimo e decide di contribuire all’evento. Tuttavia credo di poter dare alcuni consigli per cavarsela in tutta la regione:

  • Dimenticatevi del pane, non lo guardate neppure.
  • Non importa se il primo antipasto sarà buono o il secondo sublime: ve ne aspettano ancora quattro, almeno.
  • Attenzione al bicchiere: se il livello non cala mai non è perché vi state comportando bene, ma perché qualcuno continua a riempirlo.
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L'autrice quando non conosceva ancora il pranzo piemontese/Courtesy

Intanto per pranzo si intende quello del 25 e l’importante è arrivare in anticipo. Perché lo scambio eccessivo di pacchetti e pacchettini va fatto a stomaco vuoto e mente lucida, poi forse ognuno di noi spera che se si inizierà presto forse poi si smetterà di mangiare prima, si andrà anche a casa prima. Invece no, ovviamente succede l’opposto. Ma cos’è questa fiducia nel futuro anno dopo anno, se non il famoso spirito natalizio?

Gli antipasti, a casa mia, sono l’opposto della tradizione. Sono una tela bianca su cui ognuno di noi può sbizzarrirsi e lanciarsi in quello che potrebbe essere il piatto dell’anno, quello a cui si farà riferimento il Natale successivo per provare a fare di meglio. Ci sono vari approcci a questa gara non detta: c’è chi sceglie ingredienti inusuali che si trasformano in aneddoti da tramandare anno in anno, come quando mia madre provò a fare per la prima volta l’anguilla conservandola nella vasca da bagno e quella, ahimè, scappò. C’è chi punta sulla ricchezza e l’unicità degli ingredienti, c’è chi sceglie l’estetica e impiatta che manco in uno stellato, c’è chi punta su sapori esotici per togliere tutti i riferimenti conosciuti e poter dire che il piatto doveva proprio essere così (ok, beccata, sono io, ma è l’unico modo di sopravvivere alla sfida).

Gli antipasti di Natale sono anche un’arena di prova. È qui che si testano gli ospiti nuovi (fidanzati di passaggio, amici che non sapevano dove andare, gente in viaggio che in qualche modo si è trovata lì) con pesce crudo, ostriche, lumache e con i sopra citati esperimenti per vedere chi molla o chi ha lo stomaco di procedere.
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Il vincitore dell'edizione 2020 del contest "miglior antipasto", collaborazione a 4 mani autrice e madre.jpg

Ed è sempre qui che chi, negli anni, ha avuto la malaugurata idea di andare a una festa il 24 sera deve imparare a sopprimere il post sbornia e dimostrare di poter andare avanti nonostante tutto, paté di salmone e bicchieri di barbera inclusi.

Arrivati ai primi c’è chi potrebbe saggiamente consigliare una pausa. Ma no, il pranzo piemontese non ha pause, perché è sotteso da quella tipica ansia di dover fare tutto per bene, senza errori, come se si trattasse di un esame, non di un piacevole momento di convivialità. E poi, a dirla tutto, il primo è solitamente davvero buono. Qui la tradizione entra dalla porta principale e guarda schifata tutti gli esperimenti bislacchi venuti prima di lei. Si piazza in centro tavola un doppio vassoio bollente di lasagne fatte con le uova della gallina di qualche prozia, la carne proveniente dalle mucche coccolate da qualche altro prozio e tirate a mano dalla nonna. E si, negli ultimi anni c’è anche la versione veg con il pesto fatto in casa e quindi zitti tutti proprio.

Un paio di bicchieri di vino, poi bisogna cambiare bottiglia.

La scena solitamente a questo punto è la seguente: qualcuno fa scarpetta nella teglia, i maschi hanno le guance molto rosse e non è chiaro chi stia dicendo cosa a chi. Gli ospiti nuovi qui accettano di sentirsi perduti e si slacciano la cintura come segno di essere diventati parte della famiglia. Ma non siate ingenui: alimentata da grassi, carboidrati e alcol, è solitamente qui, nell’attesa del secondo, che potrebbe partire una discussione animata, talvolta un simpatico litigio catartico.

Ora arriverebbe il piatto forte, ma la verità è che nessuno se lo ricorda, pochi lo mangiano e il povero cappone, l’agnello o qualunque animale sarà stato sacrificato invano. Perché diciamolo una volta per tutte, l’unica pietanza che verrà comunque ingerita nonostante il livello altissimo di saturazione, sono le patate al forno.

Qui, come una parentesi, si fa un accenno al vassoio straripante di formaggi che ammicca dal tavolo della cucina. Fingendosi eroi la maggioranza decreta che no, i formaggi no. La verità è che tutti sanno che torneranno utili dopo, durante la cena-non-cena del (mio) Natale piemontese.
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Peccaminose ciotole di creme dolci per pandoro e panettone

Adesso però sì, la pausa la si può fare: giro di sigarette sul balcone, coccole ai cani, caricamento di storie su Instagram e check dei regali a pancia piena. Questo mentre la mise en place cambia, via i rossi, il pane (se siete stati bravi dovrebbe essere ancora tutto lì) e benvenuti mandarini, litchi, noccioline e le grandi ciotole. Panettone e pandoro non bastano. A casa mia la lotta tra i due non viene affrontata, ma coperta da strati di panna fatta in casa, di crema al torrone o dal caramello salato home made dalla sorella pasticciera. Inutile dire che i caffè non salveranno nessuno. Mentre i golosi chiacchierano con il cucchiaino che ormai impazzito li ingolla di creme, l’esercito dei grandi maschi paonazzi barcolla verso un letto, un divano, una sedia, qualunque supporto su cui si possa russare via l’abbuffata. Qualche donna cede al sonno, ma più che altro si intrattiene con passeggiate a zero gradi, giochi in scatola e karaoke (pessima new entry in abbinamento con gli amari).

E quando cala il sole, la sala da pranzo è sgombera e anche il microfono del karaoke sembra pronto a dichiarare finita la giornata, allora qualcuno dice “io non ho fame, ma tutti questi avanzi”. Non serve dire altro: il tavolo si riassesta in una finta versione sobria, il vassoio dei formaggi si piazza tronfio al centro e il brodo del cappone viene scaldato per una leggera minestrina con pappa reale, che non ho mai capito cosa fosse e come potesse essere così attesa alla cena di Natale se nessuno ne faceva accenno in qualunque altro momento dell’anno.

Ora, io non so se gli altri Natali piemontesi siano così. Ho provato a disertarlo e pasteggiare, ad esempio, soltanto con gin tonic e aragosta, e devo dire che manca qualcosa. Non so se sia il miracolo dei chili che prendo in quel giorno, o quel familiare affanno che qualcuno chiama famiglia. Ma il Natale in Piemonte, a casa mia, non può che essere così.

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