Parliamo con Damiano Donati, Chef-vignaiolo alla Fattoria Sardi, di momento, cucina d’interpretazione, brutalità agricola e vino naturale.
Ad uno sguardo di distanza dal centro della magica Lucca, nel cuore della Toscana, si erge maestosa la Fattoria Sardi, Azienda agricola ed agriturismo costruiti attorno all’importante produzione di vino, guidati da Mina Samouti e Matteo Giustiniani. Rossi, bianchi, ma soprattutto rosè si conformano alle virtuose doti dell’agricoltura biodinamica, per esprimere al meglio un territorio peculiare, situato tra mare e montagne.
In questo meraviglioso contesto trova nuova casa la cucina di Damiano Donati, cuoco-vignaiolo dalla spontaneità estrema, oggi cosa quasi radicale, ma profondamente intrinseca alla nostra stessa esistenza. La sua è una delle prime espressioni agricole sviluppatesi in Italia, nuove avanguardie realmente sostenibili, senza compromessi o desideri di vanagloria. L’esaltazione della materia è totale, così come lo studio approfondito di ogni micro-stagione, di ogni piccola variazione del campo. Così, mentre il cinghiale cuoce, facciamo una chiacchierata.
La tua è una cucina agricola, molto diretta. Come si sviluppa?
Trovo fondamentale che gli atti agricoli e culinari coincidano. Cucinare significa interpretare la natura sviluppatasi in un preciso ritaglio spazio-temporale. Un ospite che mangia in Fattoria deve poter riconoscere la stagione, anche bendato.
L’ego del cuoco ha spinto la pratica ad oscurare la forza caratteriale del prodotto e a mancare di rispetto ai relativi produttori. Da qui nasce l’esigenza di esaltare ogni singolo sedano, ogni singola carota o cipolla, pensando oltre ad un battuto per soffritto: il sacrificio umano del contadino è troppo grande per poter divenire soltanto una base dimenticata e distrattamente lavorata.
Solo capendo a fondo la materia prima si può partire verso un percorso di semplificazione che punti alla coerenza. Ogni aggiunta superflua è protagonismo, distrazione e distruzione. La golosità finale che coccola il palato è obiettivo necessario ma non sufficiente, poiché gli elementi del piatto dovranno sempre essere riconoscibili e celebrati.
Presentare un ortaggio intero appena raccolto, accostato in purezza a pochi sapori, è estrema antitesi di tante facili destrutturazioni, di menu statici e sempre disponibili; è ardua prova di umiltà, è un inchino, un passo indietro, un lavoro mentale su se stessi per dare spazio all’ingrediente; è sforzo al fine di far brillare altro rispetto a te, collima col lavoro di un contadino: gli atti agricoli e culinari coincidono.
Come hai sviluppato questo approccio?
La mia è stata una maturazione per gradi, una conquista. Quando ero più piccolo mi perdevo nei libri di cucina italiana classica, presenti negli scaffali di casa, cercando di replicarne le ricette con l’aiuto di mia madre. Non so bene da dove venga questo stimolo, ma ha sicuramente aspetti in comune con tutte le altre discipline che mi appassionano, come la meccanica e la falegnameria: l’atto del creare, il concetto di manualità, di contatto con la materia che si fa gesto primario tendente al bello.
Così decisi di lavorare il prima possibile e fare esperienza pratica, in ristoranti ed aziende agricole, in modo da imparare per contatto diretto. Non è un caso che il forno interrato in stile turco, che utilizziamo in Fattoria per alcune cotture speciali, sia stato realizzato a mano interamente da me. Non sarei stato in grado di farlo costruire, ho bisogno di percepire ed esperire il processo di trasformazione. Lo stesso che trovo, ad esempio, nei batteri: la riscoperta dei pani, della panificazione, non è altro che il prendersi cura e seguire una vita a se stante, che ha un cammino correggibile ma mai domabile, rendendola alimento nutriente e denso di significato simbolico.
Con la proprietà della Fattoria abbiamo capito come disegnare una visione omogenea e congeniale al luogo, che formasse continuità con il lavoro etico dei vignaioli. Questa mia proposta era l’unico modo possibile per non contrastare il grande lavoro sulla produzione delle bottiglie, per far dialogare le due discipline linearmente. D’altro canto prepariamo tutto quello che ti aspetti di trovare in agriturismo, ma con qualche tecnica in più e consapevolezze nuove.
Cosa hai imparato dal contatto stretto con la terra?
La realtà contadina è molto cruda, lontana dall’immaginario idilliaco con la quale viene dipinta, è senza remore o pietà. Questi aspetti forgiano il carattere e portano a cambiamenti di vita intimi, importanti. La morte, che diventa quotidiana compagna di lavoro e garantisce a suo modo altra vita, fa riflettere su come l’intervento saggio sulla natura porti ad un’etica ancora maggiore di quella che verrebbe in essere senza di noi. Tutto ciò ridisegna il ruolo di un’umanità-piaga nei confronti della terra, lasciando spazio ad una percezione collaborativa e di scambio.
Lavorare in agricoltura e allevamento fa vedere l’universo in maniera vivida per la prima volta, quasi non lo avessimo mai conosciuto veramente. Si festeggia ogni goccia di pioggia, si crea un legame profondo con ogni essere vivente e si diventa madri, padri, amiche, amici, figlie e figli, colleghe e colleghi migliori. Anche come cuoco, logicamente, percepisco mutamento: si accetta la sbavatura, il morso accentuato di una carne selvatica che non dovrà per forza “sciogliersi in bocca”, l’espressione nuda di quello che il mondo offre. Diretta e trasparente è la pietanza, perché così è l’uomo che lavora la terra: fino ad oggi abbiamo avvilito queste figure, ma la loro sincerità porta respiro e ri-porta all’essenzialità, alla base imprescindibile sulla quale abbiamo costruito così tanto da aver perso la memoria. Un ritorno ad antiche conoscenze, come nel caso del forno interrato, che richiamano all’istintualità, alla necessità che diventa genio, alla bellezza dell’intelletto umano, ma anche alla poesia di un fuoco unificante.
Il clima che si percepisce qui è armonico, gioviale, molto avanguardista in termini di sostenibilità umana. Ne parliamo?
Dopo molti anni in diversi ristoranti ho compreso ciò che non volevo, ho imposto a me stesso di voler fare cibo in modo diverso. In questo mestiere le ore sono necessarie, si tratta di renderle appaganti e stimolanti, bilanciandole poi con il dovuto riposo.
Noi lavoriamo quattro giorni a settimana, lasciando molto spazio alle vite personali di tutti. In cucina siamo tre persone, ma l’intensità non è assolutamente mortificante, c’è collaborazione, rispetto ed energia.
In questo la mia filosofia aiuta: la complessità eccessiva richiede un numero di braccia alto, spesso mal pagate e sfruttate all’osso. La semplicità agricola significa anche umanità e vitalità, un ritorno al concetto di ristoro dove lavorano professionisti che ne traggono giovamento ed identità, e non sono solamente un semplice numero a svolgimento di un obiettivo smisurato. Penso che il fare un passo indietro sia indice di maturità, di ridefinizione delle priorità.
Ci spiegheresti il progetto di “Cantina Anonima”?
Cantina Anonima nasce ufficialmente quest’anno, ed è l’azienda che porta a frutto l’impegno mio e del mio grande amico-socio Ruggero Baronti nel mondo del vino naturale. Consiste in poco più di un ettaro di vigneto, in diverse antiche varietà lucchesi di uve e si sviluppa sulle colline vicine alla Fattoria. Sono stati necessari diversi anni di vendemmie, studi e fallimenti, così come continui confronti con vignaioli locali illuminati, per iniziare a riuscire nelle prime bottiglie. Anche qui si parla di interpretazione: ogni annata diventa sfida nuova e può portare a risultati molto diversi fra loro. Ma questa è anche la poeticità del fare vini ancestrali, aperti all’inaspettato, divertenti e non forzati.
Mi riportano alla spontaneità del suolo, alla qualità della vita nella ristorazione, all’amore personale per i lavori manuali. Si tratta solo di capire il ciclo del proprio ecosistema e trarne vantaggio, avendo l’intelligenza di preservarne la fertilità e le biodiversità. Vedremo come prenderà corpo il progetto, ma siamo molto fieri dei risultati ottenuti fino ad ora.
Damiano Donati trova così la quadratura del suo delicato cerchio nella Fattoria Sardi, una di quelle realtà virtuose che stanno dando nuova e fresca anima ad un paese che era ormai stanco di se stesso.
La cucina non è solo un’insieme di ricette, ma soprattutto una vasta presenza di lavoratori che custodiscono la terra, punto primario di qualsiasi azione umana. La riconversione di queste due discipline sta dando vita ad un fermento in grado di sovvertire le coscienze ed impattare il mondo in modo altamente efficace e piacevole.
Che passi da una pregiatissima carne di cinghiale, resa affumicata e tenera dalla cottura in forno interrato, o da un tagliente spaghettino al burro, parmigiano e susine acerbe che potrebbe diventare già tradizione, l’azione di Damiano mira ad una generosa promozione del lavoro altrui, ad una condivisione del riflettore e del podio. Il nuovo lusso pare ormai risiedere nell’etica, nella schiettezza di sapori e nella località, resi offerta democratica; nella danza felice tra clientela, produttore, Pianeta e brigata; nel restituire spazio alla natura e alla scorrevolezza vitale. Ma adesso alziamoci: “Il cinghiale è cotto, dobbiamo levarlo!”