Essere uno chef oggi è un atto culturale. Giulio Gigli e la sua nuova cucina tradizionale

Da UNE, l’aria che si respira porta con sé qualcosa di fresco e innovativo, ma allo stesso tempo familiare. Giulio Gigli, chef e proprietario, vuole comunicare l’importanza del ritorno alle origini attraverso nuove frontiere di sperimentazione.

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Come può una piccola frazione come Capodacqua diventare un punto di riferimento per la scena enogastronomia regionale e forse nazionale? In questo paese nel comune di Foligno (PG), tra le colline umbre, un frantoio del 1400 ha trovato nuova vita attraverso il progetto UNE, un ristorante legato alla terra, alla stagionalità e a un uso consapevole delle materie prime. 


Ma a rendere unico questo luogo è anche il messaggio di cui lo chef si fa portavoce: le tradizioni come via per il progresso. Da UNE infatti, l’aria che si respira porta con sé qualcosa di fresco e innovativo, ma allo stesso tempo familiare. Giulio Gigli, chef e proprietario di una fresca apertura datata 1 agosto 2021, vuole comunicare l’importanza del ritorno alle origini attraverso nuove frontiere di sperimentazione.

"Essere uno chef oggi è un atto culturale” sostiene, “e UNE è una sfida importante: ci sono tante cose da fare e tante idee da realizzare, ma adesso il tempo non ci manca”.

Giulio Gigli ha passato gli ultimi 15 anni in giro per il mondo, lavorando in ristoranti stellati come Il Pagliaccio con Anthony Genovese o il Benu a San Francisco. L’ultima esperienza lo ha visto protagonista al Disfrutar di Barcellona, dove ha lavorato come chef di cucina e responsabile del reparto creativo.

Abbiamo incontrato Giulio Gigli per saperne di più sul suo atto culturale.


Come descriveresti la tua cucina?

Sicuramente è una cucina istintiva che si muove nei limiti e nelle possibilità date dalla struttura in cui mi trovo. In questo momento sono in una fase molto impulsiva della mia vita, mi affido a quello che sento e alla mia memoria gustativa; cerco di dare maggiore rilevanza alla storia che può stare dietro a un prodotto o a un piatto. Lavoro affinché il cliente possa vivere l’esperienza della tradizione, della scoperta o di un ricordo d’infanzia. 
Qui da UNE cambiamo menu molto spesso, questo è uno svantaggio e un vantaggio allo stesso tempo: rispettiamo sempre la stagionalità ma la difficoltà sta anche nel tenere alta la continua sorpresa. Se al contrario hai un menu che cambia 4 volte l’anno, non rispetti troppo la stagionalità ma hai un menu solido, ben fissato e strutturato. Noi quindi, dobbiamo stare attenti a far sì che ogni piatto non perda mai la sua identità; una cucina istintiva è anche questo e va bene così.

Alcune delle conserve del ristorante, preparate da Giulio e il suo staff.jpg

Le sferificazioni di pinoli e pino; l’aromatizzazione con i fiori di aglione nel pane preparato in collaborazione con il panificio locale O’MÀ; la pasta e fagioli reinterpretata con umbricelli di grani antichi, fagiolo di Cave e spuma di cotenna; le conserve autoprodotte e utilizzate stagionalmente. Queste sono solo alcune delle preparazioni che contraddistinguono la tua cucina istintiva, un costante e perfetto binomio tra sapori di casa e tecniche innovative. Ci fai un altro esempio?

Quando ero a Barcellona ho sviluppato questa tecnica in cui la macchina per fare il cioccolato, la troncatrice, veniva utilizza per preparazioni e combinazioni di ogni tipo. Il meccanismo è semplice: delle macine, pietra su pietra, creano un composto omogeneo tra le fave di cacao e il burro di cacao, nasce così la pasta di cacao. Qui noi cambiamo i protagonisti: per la parte grassa al posto del burro di cacao usiamo l’olio di oliva, e invece della fava di cacao utilizziamo il pomodoro liofilizzato in polvere; otteniamo così un praliné di pomodoro.
Questa tecnica ha uno sviluppo immenso, ad esempio posso prendere il grasso del fois grois (un grasso che solidifica al freddo) e dei fichi liofilizzati, mettere l’impasto negli stampi dei cioccolatini e mangiare del fois gras ai fichi. Oppure posso usare il grasso di midollo, il grasso di pollo o del burro chiarificato per fare dei burri aromatici.

Sulla scia di questo ultimo esempio, secondo te una materia prima quanto può essere modernizzata? Esiste un limite oltre il quale non bisogna andare quando si tratta un ingrediente della tradizione?

La materia prima è, per forza di cose, legata alle usanze e alla storia del territorio. Ci deve sempre essere un equilibrio tra moderno e tradizione, oltre al rispetto della stagionalità. Se usi un pomodoro in inverno e poi cominci ad aggiungere cose per rendere più elaborato e saporito il piatto, finisce che perdi l’aspetto fondamentale della preparazione: il sapore autentico del prodotto originario.

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UNE porta con sé un messaggio molto chiaro: il ritorno alla tradizione attraverso la consapevolezza e lo studio di nuove tecniche, ma è anche un riappropriarsi del tempo e dei rapporti umani.

UNE coinvolge tantissime persone e aziende, tra fornitori e materie prime di prossimità, il suo scopo è valorizzare i prodotti presenti sul territorio e quindi riscoprirli. Un vero e proprio atto culturale in cui si ritorna a relazioni improntate sul rapporto umano prima che lavorativo, sulla fiducia nel produttore e nei collaboratori. Nell’antica lingua umbra UNE significa acqua, ma sembra anche il plurale di uno e questo racchiude alla perfezione la filosofia del mio ristorante.
Tutti coloro che hanno preso parte al progetto sono persone conosciute in momenti ed esperienze lavorative diverse della mia vita, per esempio ogni aspetto riguardante il design è opera di una ragazza cilena conosciuta al Disfrutar. Forse la cosa più interessante di tutto questo è vedere come si può crescere insieme in un progetto, migliorare anche grazie a chi non è ancora un professionista affermato ma si appresta a diventarlo; dare l’opportunità ad amici e parenti di lavorare e di fare qualcosa di interessante in cui si cresce tutti all’unisono. Questa è la prima volta che faccio l’imprenditore e per me è una sfida anche sotto un punto di vista umano.

Dopo i tanti anni passati all’estero, credi che andare fuori possa essere propedeutico per riscoprire la propria terra?

Si, ma sicuramente è necessario anche per migliorare se stessi. È un nuovo inizio in cui poter riazzerare tutto e capire a mente fresca cosa ti piace cosa no, come approcciare alla vita di tutti giorni e come sviluppare le relazioni interpersonali.Quando sono partito volevo anzitutto lavorare sulle principali cucine: italiana, francese, spagnola. Poi viaggiare e imparare le lingue. Alla fine gli insegnamenti che rimangono dipendono tanto dalle cose che succedono, io per esempio mi sono licenziato e pochissimo tempo dopo è arrivato il Covid; se non ci fosse stata la pandemia magari avrei ricevuto la chiamata da un hotel e forse accettato un nuovo lavoro, è difficile da capire. UNE non è la mia prima scelta ma piuttosto una scelta fatta sulle base delle cose accadute. Nasce dal susseguirsi di situazioni e di bisogni dettati dal periodo storico in cui mi trovavo, generale ma anche personale.
Credo che comunque essere di nuovo a casa dopo tanti anni è allo stesso modo una fonte di stimoli e ispirazioni come l’esser andato fuori. Sono partito a soli 19 anni e tornare per me significa ricordare, riscoprire, ritrovare e a volte conoscere degli ingredienti e delle materie prime dimenticate.


Di tutte le esperienze fatte, quale è stata la più grande scuola?

Ogni chef o collega con cui ho lavorato mi ha lasciato qualcosa di importante. Devo dire però che lo chef Antony Genovese mi ha impressionato: nonostante la sua posizione, lui passava tutto il giorno in partita alle carni; questo si avvicina molto alla visione ho io oggi dello stare in cucina. Per non parlare poi della sua maestria nell’usare e combinare le spezie, e della sua identità molto definita in grado di rispecchiare alla perfezione le sue origini calabresi e francesi.


Il Disfrutar invece è stata un’esperienza che mi ha fatto andare oltre la mia professione. Essere responsabile del reparto creativo significa che ogni anno ci sono tanti nuovi piatti da creare, con nuove tecniche e nuovi ingredienti. In quel caso la vera difficoltà sta nel saper arrivare alle persone, facendo vivere loro un’esperienza e al contempo riuscire a far comprendere i vari procedimenti dietro ogni piatto. 
Ho imparato che la tecnica è inutile se nel risultato finale c’è confusione al palato.Io faccio piatti studiati, talvolta elaborati, e il mio obiettivo è poter arrivare a tutti: questo è possibile solo attraverso i sapori semplici.Ma per rispondere alla tua domanda, posso dire che alla fine, la più grande scuola è stata la cucina di mia nonna.

Potete andare a scoprire la cucina dello chef Giulio Gigli nel piccolo borgo in cui sorge il frantoio oggi chiamato UNE. Un luogo fuori dal tempo, che unisce con estrema naturalezza il bagaglio storico delle tradizioni umbre con le visioni avanguardiste delle cucine più importanti al mondo.UNE riutilizza il materiale di risulta delle olive per produrre la carta dei suoi menu e basa molto della sua cucina sulla disponibilità degli ortaggi presenti nel piccolo orto accanto al casale. Ha una carta di vini con etichette naturali e biodinamiche, provenienti dall’Umbria ma anche qualche referenza estera come la Francia e la Germania.
Con Giulio Gigli il patrimonio enogastronomico umbro viene riscritto su algoritmi internazionali, dando nuova forma e valore a ingredienti che si pensavano dimenticati o addirittura sconosciuti. Lo chef assume così le sembianze di un ambasciatore, pronto a riscrivere le regole di una nuova cucina tradizionale. 

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