BAKKANALI, la prima vendemmia non si scorda mai

Non è stato semplice per Sebastian e Ugo, due giovani pionieri appassionati di vino, giunti su questa nuova terra: sul Monte Amiata hanno imparato il coraggio di non intervenire e di concedere libertà alla natura.

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E’ la prima vendemmia per la neonata realtà vinicola Bakkanali, nella sperduta località Poggioferro di Seggiano nel cuore della Toscana, che poggia sul Monte Amiata – il gigante addormentato - un vulcano pleistocenico che sfiora i 1750 metri, silente ormai da 180.000 anni, per lo più vergine a livello vitivinicolo.

Non è stato semplice per Sebastian e Ugo, due giovani pionieri appassionati di vino, giunti su questa nuova terra: volevano la neve, il freddo e le escursioni termiche; l’altitudine era indispensabile, ma non sufficiente per ottenere vini di personalità e texture. Allora sono andati alla ricerca di matrici calcaree e stratificazioni geologiche fratturate, dove la vite dionisiaca potesse fondere mondo organico e inorganico.

Da un lato la voglia di fare è molta, dall’altro le loro esperienze professionali (Ugo arriva dal settore commerciale vitivinicolo per una nota azienda nel cuore della Val D’Orcia, mentre Sebastian, enologo, arriva da una lunga e sfidante esperienza in cantina a Montalcino), così come i numerosi calici che sono passati sulle loro tavole, insegnano che ci vuole il coraggio di non intervenire e di concedere libertà alla natura. 

“Crediamo che il punto d’inizio sia accettare il nostro ruolo di custodi invece che comandanti - afferma Sebastian - vedere la natura come la nostra più grande risorsa e alleata, per produrre un vino vero e di terroir, un vino dove la natura, ovvero la vita, non sia stata intralciata o dominata. Dove, sia in vigna che in cantina, l’uomo si è concesso qualche rischio in più e si è messo un po' a lato, cosciente che la posta in gioco è l’assoluta bellezza delle cose scolpite dalla natura, imparagonabile al miglior artificio che la mano umana possa concepire.”

Ugo aggiunge “In vigna coltiviamo secondo i principi dell’agricoltura biodinamica, per noi è importante restituire una fotografia nitida del luogo e della sua stagione, in cantina preferiamo gestazioni lunghe che accolgano il microcosmo del luogo. Ci avvaliamo di contenitori di vario tipo per lo più neutri e porosi. Non disdegniamo raspi e fermentazioni a grappolo intero, sarà il vino stesso a indicarci la giusta via, noi possiamo solo essere artigiani sensibili e fiduciosi.”

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Isotta Rosboch

Perché proprio BAKKANALI?

“Bakkanali come i banchetti durante i quali i romani celebravano l’estasi della vita, fra vino, cibo e corpi; così ci siamo conosciuti e siamo diventati amici: a tavola! Inebriati da vini ogni volta diversi alla ricerca di quelle emozioni che ci fanno sentire vivi. Così sara’ Bakkanali: una celebrazione del nostro entusiasmo, delle persone che amiamo e del mondo del vino che tanto ci rende felici.”

“Per anni ci siamo chiesti dove avremmo trovato il nostro terroir, ossessionati dalla ricerca di una geologia tutta nostra. Gli anni passavano, bottiglia dopo bottiglia, campo dopo campo, alla fine è arrivato, come un maestro che appare quando l’allievo è pronto. Era sempre stato lì, a pochi chilometri da noi a guardarci dall’alto, avvolto nel mistero, orfano di un custode, di un interprete in cerca di qualcuno che trovasse il coraggio di crederci. Altitudine, neve, escursioni termiche, terreni geologicamente antichi, ricchi di calcari e quarzi che salendo si trasformano in scisti e sabbie vulcaniche. Qui abbiamo deciso di affondare le radici e intraprendere la nostra spedizione, con l’obiettivo di ascoltare questi luoghi e tradurli in vino per primi, come esploratori di una nuova terra appena scoperta. Liberi da regole e disciplinari, curiosi di capire, ispirati da maestri artigiani che per anni hanno monopolizzato le nostre bevute. Finalmente il nostro sogno si è realizzato, proprio qui sull’antico vulcano, il Monte Amiata.”

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Isotta Rosboch

Sull’Amiata, per un sacco di tempo, si è fatto vino ma in maniera promiscua, c’è sempre stata una coesistenza di vigneti, castagni, ulivi; all’interno dei vigneti si alternavano uve bianche e rosse. Non c’è molta vigna, ma quella che c’è è sempre stata al servizio della vita dei poderi, orientata alla resa, le piante sono molto antiche, lo si vede dai grappoloni. Il “lavoraccio” è quello di recuperare queste vigne, che si fanno portavoci di realtà molto curiose: il microclima è particolare, la realtà geologica unica, l’influenza è vulcanica e calcarea di origine oceanica. E’ una grossa responsabilità essere pionieri di questa terra, che finora non ha avuto grandi interpreti. 

A metà vendemmia, i ragazzi sono stanchi e felici, è un momento molto intenso. Tutto è nuovo, vergine: terreno nuovo, team nuovo, strumenti nuovi, ma metodi volutamente artigianali;  la molla è stata l’aspirazione di farsi portavoci di un luogo ancora inesplorato, dove possono essere i primi a indagare e a fare un percorso insieme alle loro vigne e vedere come valorizzare quello che la natura gli concede.

Fatica tanta, ma tanto entusiasmo: in questa avventura c’è già grande fermento, incarnando gli appassionati che lavorano nel mondo del vino che ad un certo punto decidono di prendere una direzione, circondandosi di gente giovane e iniziare un’attività in cui tutti credono profondamente. Anche in questo settore, c’è bisogno di gente che si butti, in questo momento storico di grande rivoluzione nel mondo del vino, si stanno aprendo tante porte e portoni, soprattutto in quella fetta di mercato del vino di nicchia, più artigianale, quello che nasce per raccontare un territorio con sincerità e con poche decine di migliaia di bottiglie. 

La capacità e il coraggio di lasciare la propria comfort zone, abbandonare lavori sicuri e collaudati per mettersi a fare vino, hanno fatto credere sin dall’inizio a questo progetto, ricevendo tanti incoraggiamenti da tanti esponenti storici del mondo del vino. Parlando dell’Amiata, tutti sanno dov’è, ma nessuno ci aveva mai scommesso; il potenziale è altissimo perché con il surriscaldamento climatico, la siccità di quest’anno, in questo microclima unico, la problematica è stata di molto ridimensionata. E’ il territorio del futuro (ndr - “shhh non ditelo questo” - sussurra Seba).

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Come descrivereste il vostro vino?

“Il vino più riuscito non sarà il “nostro” vino, ma sarà il vino di questo luogo. Poi certamente, con le nostre scelte, che saranno soprattutto scelte del “non fare”, perché qui c’è poco da aggiungere, c’è più che altro da togliere, per lasciare la bellezza fiorire. La mano nostra si sentirà come impronta stilistica, ma ci piacerebbe che diventi il vino di questo luogo e che abbia una firma indelebile e riconoscibile. Dare un’identità all’unicità di questo luogo attraverso il vino”

Come vi definite voi?

“Ci piace bere, esplorare, ci piace essere contaminati e far gravitare persone e personalità nel nostro “bakkanale”, la convivialità è un momento di scambio di idee, opinioni per far parlare il vino e fare noi un passo indietro; di fatto è la vigna che si esprime, perché la semplicità ti porta ad essere impeccabili, “it’s hard to be simple” - diceva qualcuno - in tante decisioni è molto più difficile semplificare, dalla vigna alla cantina, essa ti porta a lavorare molto di più, per poi intervenire meno sul vino. Questo è il pensiero che ci unisce.”

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Le sfide sono state e sono tutt’ora tante, il loro percorso professionale li ha portati a costruire tutto da zero, da basi solide però, avendo lavorato sempre per alzare l’asticella. Il clima quest’anno è stato un po’ nervoso e nevrotico, non è un’annata ottimale, le quantità non sono state molto alte, e la siccità è stata piuttosto prolungata, ma la zona li ha ripagati, non avendo avuto problemi di maturazione e sovramaturazione, rendendoli ancora più convinti che spostarsi in alto sia stata una scelta giusta.

Perché agricoltura biodinamica? 

Perché siamo aperti alle contaminazioni, in degustazioni alla cieca, senza essere condizionati dall’etichetta, c’era una certa filosofia ad emozionarci. Un percorso che è arrivato da solo, e poi non ne puoi più fare a meno. Il nostro vino non poteva essere che biodinamico, seguire certi processi e certi canoni. Bisogna essere connessi con la natura e seguire i suoi ritmi, senza stravolgerli. Abbiamo più esigenze: la prima, costruire salute, essenzialmente per le nostre piante, che si traduce in un frutto migliore. Come costruiamo salute? Sicuramente rimuovendo quella che è la chimica e migliorando la nostra agricoltura, che per quanto sostenibile, green e delicata, è un atto umano e ha un impatto sull’ambiente – anche la biodinamica ha un impatto sull’ambiente – quello che pensiamo è che la biodinamica ci permette di fare in più rispetto alle altre tipologie di agricoltura è creare più salute, di prenderci cura ancora meglio della cornice, non solo della vigna che è al centro, se l’ambiente è salutare, il terreno attivo e microbiologicamente che funziona al meglio è un terreno che ci ripaga sia in termini quantitativi che qualitativi. Oltre a questo, abbiamo il compito e la responsabilità di produrre cibo, perché facendo vino, non facciamo altro che del cibo. La biodinamica, a mio avviso, è il miglior modo di produrre cibo di qualità – intanto dal punto di vista nutrizionale - perché rimuovendo praticamente tutto quello che è la chimica (a parte rame e zolfo in minuscole quantità) dalla campagna – produciamo del cibo più salubre. Il percorso mentale e l’esercizio continua in cantina, dove non ci sono additivi, se non solfiti in piccolissime dosi, ma escludiamo tutta quella miriade di additivi abbastanza comuni in enologia; e poi, sempre per il nostro sfizio e nerdaggine, ci interessa che il vino abbai un forte legame con il luogo di provenienza e la biodinamica è quel tool, quello strumento, che rinforza quel legame fra quel vino e il luogo di provenienza. Se mettiamo insieme queste necessità, troviamo in questa filosofia lo strumento più adatto alle nostre esigenze. Altra cosa molto bella, la biodinamica non ti dice cosa devi fare, ma è una stella polare che ti trasmette e sensibilizza a 4/5 cose che oggi sono un po’ trascurate dalla maggior parte dei produttori, poi siamo noi che costruiamo il nostro percorso e le soluzioni, che sono su misura per quel determinato clima, ambiente, flora e fauna. Una missione libera, una tela bianca, e noi qui sull’Amiata capiremo nei prossimi anni come aiutare e arricchire questo luogo e dargli espressione.”

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La vostra più grande fonte di ispirazione? 

SEBASTIAN: “Un percorso continuo, che non arriverà mai a destinazione, fatto di visite a produttori, scambi, bottiglie aperte, cene, incontri, viaggi, questa è l’ispirazione che ho tutti i giorni.”

UGO: “Per me fonte di ispirazione, sono dei produttori che ho conosciuto, che mi hanno emozionato come vino ma soprattutto come persone, perché dietro un calice dietro un vino che ti emoziona c’è sempre una persona che l’ha pensato, che ci ha lavorato e non so perché poi quando quel vino che ti emoziona, casualmente aveva un’idea di un certo tipo e anche quella persona aveva delle idee che mi piacevano, interessante, di cultura e una di queste è Marino Colleoni, colui che ci ha portato a esplorare questo luogo, quelli sono vini da cui traggo ispirazione, ma anche da lui, una persona di un generosità e sensibilità che sono le cose che contano. La persona dietro il vino, che poi il vino riflette quella persona, e a quel punto la biodinamica va in secondo piano. Lì quando hai la pelle d’oca, trovi quello che cerchi!” 

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I ragazzi che sono saliti a bordo di Bakkanali rappresentano a pieno lo spirito libero e ribelle che caratterizza questa nuova realtà; ragazzi curiosi e aperti al mondo, contaminati da vignaioli e vini di regioni diverse. Il primo a credere nel progetto è stato l’enologo Matteo Zazzarini, che - dopo tanta Borgogna (per esempio Arnaud Lachaux) - , ha deciso che valeva la pena rimpatriare, per avventurarsi in un’esplorazione di un terroir nuovo come quello dell'Amiata; poi è arrivata Isabella Varinelli anche lei enologa, cresciuta professionalmente fra Borgogna, Alsazia e Wachau. Quello che li ha portati fin quassù è stata la sensazione intuitiva di diventare parte di qualcosa di importante e fuori dall’ordinario, dal quale potessero arricchirsi professionalmente, ma anche trovare una dimensione umana rara in Italia.

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Conclude così Seba: “A noi interessavano teste pensanti, idee, entusiasmo e qualità umane più che competenze tecniche, e loro rappresentano a pieno l'attitudine rara di cui ci vogliamo circondare.” e poi   “Lungo il cammino abbiamo incontrato anche un giovane iraniano di nome Shafar, profugo arrivato in italia su un gommone, ha trovato la sua dimensione qui da noi; un paio di volte aveva lavorato nelle nostre vigne tramite una squadra di terzisti, ma é bastato poco per capire che era uno di noi, che diventasse "Sa fà!" e fosse anche lui arruolato - visto che come diciamo sempre scherzando -  è effettivamente quello che sa fare più cose…Poi ci siamo io e Ugo, figli professionalmente parlando della Montalcino odierna, ma onnivori di vini e vignaioli lontani, siamo un po’ due ragazzi di bottega abituati a fare tutto e stare sul marciapiede.”

Questa storia è una di quelle storie di imprenditoria giovanile che vorremmo supportare e raccontare sempre di più, perchè a discapito di chi dice che “i giovani non hanno voglia di lavorare”, qui si respira la vocazione di creatori di qualcosa di bello e coraggioso. Vignaioli non si nasce, si diventa. Inutile dire che le aspettative sono altissime e non vediamo l’ora di assaggiare il vino dell’Amiata! 

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