Cosa significa imparare a conoscere e trattare le piccole gemme verdi simbolo dell’isola delle Eolie.
9.30 del mattino, il sole è già alto, l’aria tiepida si rinfresca con bave di vento regolari. Dal declivio dolce della collina appena fuori Malfa scende rumoreggiando sul sentiero un Apecar verde scuro, un cane dal pelo di mandorla nel cassone.
Alla guida gli occhi azzurri del signor Virgona dell’omonima azienda produttrice di capperi e cucunci, che misura in silenzi frequenti e interiezioni a frustata il ritmo delle sue parole. Tra le rughe mobili del suo volto di cuoio e un bastone per puntellarsi al terreno scosceso, la raccolta dei capperi non ha bisogno di poesia o storytelling.
L’essenza di fatica, di rispetto, di natura conosciuta adeguatamente, si vede nell’esperienza con cui saggia la consistenza dei piccoli (o piccolissimi) frutti sulle piante che sembrano fuochi d’artificio, nei segni sulle dita che staccano di netto i capperi per dimostrare come funzioni il suo lavoro. Tra il verde brillante delle foglie e la sfacciataggine dei fiori screziati di viola, bianco e giallo fluo, le dita del signor Virgona sono pura conoscenza ad occhi chiusi. La pianta del cappero è resistente, testarda, cresce dove le pare persino in città.
Ma è a Salina, l’isola verde delle Eolie che sta intelligentemente percorrendo il progresso della sostenibilità ambientale reale, che si preparano quelli che sono tra i migliori capperi sotto sale della tradizione conservatoriera italiana. Raccolti ancora a mano di mattina presto, fatti riposare e spurgare sotto sale per il tempo necessario, pronti ad accompagnare le ricette della tradizione o le creazioni dei grandi chef (Martina Caruso, la chef stellata del ristorante Signum proprio a Salina, li trasforma in un gelato al cappero che è il suo signature dish immancabile), sono forse il tratto più distintivo della cucina regionale italiana nel mondo. Il loro sapore amaro, leggermente acidulo, a tratti con una punta di legno sull’erbaceo, li rende identificabili e inconfondibili. Ma questo arriva dopo, molto dopo il periodo di raccolta, che si tiene nella bella stagione e che a giugno e inizio luglio ha il suo massimo splendore.
Inizia qui, dai campi in discesa, la vita dei capperi da mangiare. La squadra di raccoglitrici dell’azienda Virgona ha anticipato i tempi e alle 9 ha già lasciato il campo, vederle all’opera non si può. “Hanno cominciato alle 5.30, a volte anche alle 5” articola il signor Virgona in un dialetto stretto che non smuove nemmeno un muscolo del viso.
Ma c’è lui a spiegare come avvenga: schiena curva, testa china, occhi allenati a distinguere i minuscoli frutti di grandezze diverse. I capperi pronti da cogliere si vedono subito, sono sodi e polposi. Più piccoli sono, più pregiati vengono considerati. In commercio vanno molto i medi, ma ignorare i capperi grandi, detti capperoni, sarebbe un’eresia, un affronto all’offerta della natura: sono buonissimi e parecchio versatili, strepitosi per fare il pesto. Per amor di precisione, le diverse grandezze dovrebbero essere suddivise al millimetro di diametro, ma per comodità di lavorazione e consumo si preferisce lavorare su tre macrocategorie di piccoli, medi e grandi.
Vanno controllati con cura e staccati con un colpo secco prima che inizino a sbocciare in tutta la loro sfacciata bellezza. Se non si fa in tempo, si passa alla fase due e si aspetta che arrivino i cucunci, i frutti del fiore del cappero, particolarmente amati ed entrati nel consumo comune in versione sottolio per gli aperitivi di città. Prima o dopo la fioritura, spartiacque estetico della sua versatilità, le piante di cappero non deludono mai. Ma guai a tagliarne le cime per prepararle, come qualcuno ha provato a fare con alcune tipologie da coltivazione: le si condannerebbe ad una morte insostenibile. Gli unici che possono essere destinati alla cimatura sono i capperi selvatici, quelli che crescono spontanei nei muri, sempre che si abbiano velleità da freeclimber o da Spiderman.
Dopo la raccolta si passa alla lavorazione effettiva, vale a dire la salagione: i capperi si mettono in tinozze, in una cantina al buio e al fresco, e vengono cosparsi di sale per farli spurgare. Uno strato di capperi, uno strato di sale, via via fino a riempire i recipienti per poco più di metà. Restano in questo limbo salato per 60 giorni e vengono rimescolati accuratamente ogni 24 ore, affinché anche quelli in superficie si immergano nella salamoia naturale che viene a crearsi.
L’aria della cantina è un misto di mare e di cappero bruciato, acidula di fermentazione controllata nel fresco riposante. “A volte l’odore è così forte che gira la testa” commenta Virgona. Il suo occhio clinico sa riconoscere anche quando fare l’eventuale aggiunta di sale, quando e quanto rimestarli senza rovinarli, quelli che sono pronti per la macchina selezionatrice (che li separa per grandezze, lavoraccio che una volta veniva fatto rigorosamente a mano e già al momento della raccolta) e quelli che necessitano ancora di un po’ di riposo. Li controlla con l’autorevolezza di anni di lavoro e l’amore che non è mai svanito, pure se si schernisce autoincasellandosi nella categoria dei vecchi.
Fuori dalla cantina, nel sole di Salina che carica i profumi dei limoni e del basilico cotto dal mezzogiorno, non si può prescindere da un tour dell’orto, dove le zucchine sono giganti e i pomodori occhieggiano di rosso tra le foglie, e nella bottega Virgona per fare il pieno di capperi, cucunci, birra artigianale, sughi e marmellate, la favolosa polvere di capperi o quella di bucce di arance. Con le braccia cariche e il cuore pieno di riconoscenza, l’ultimo sguardo è per il cane dal pelo di mandorla che sonnecchia vicino ad un fico frondoso, con il tartufo sotto una foglia di cappero.