La riscoperta del mais blu: dalle civiltà precolombiane al cibo come intrattenimento, il fun food guarda al passato
Ci siamo risvegliati in una realtà in cui la foto al piatto è più importante del piatto stesso. Vogliamo essere stupiti, intrattenuti. Buono il taco, ma… dov’è la mia porzione large di dopamina?
Nel 2024 è difficile non essere mai entrati in contatto con il concetto di Fun Food. Durante una passeggiata milanese in Sarpi sorseggiando un bubble tea, morsicando un vegan burger colorato o semplicemente decidendo di fotografare il sushi che abbiamo ordinato, prima di assaggiarlo. Per Fun Food s’intende un alimento pensato per intrattenere, oltre che per nutrire. Eppure, nel retrobottega del nostro super-io, risuonano ancora le parole dei nostri genitori: “non si gioca con il cibo!”. Cresciuti in un mondo dove il cibo non doveva essere divertente, anzi, conservava una certa sacralità, ci siamo risvegliati in una realtà in cui la foto al piatto è più importante del piatto stesso. Vogliamo essere stupiti, intrattenuti. Buono il taco, ma… dov’è la mia porzione large di dopamina?
Mentre scrivo però mi viene un dubbio. Siamo sicuri che in cucina sia sempre stato così, che il cibo sia sempre stato trattato come una cosa seria? Faccio qualche ricerca e scopro che nel Medioevo la componente cromatica era importantissima. Le salse, per esempio, che non avevano lo scopo di nutrire ma di ravvivare o correggere il gusto delle vivande, venivano preparate con svariati colori e servite in tante ciotoline, le une accanto alle altre. Il commensale sceglieva la salsa più in base al colore manifesto che al sapore presunto. Di certo, chi poteva permetterselo, non era molto attento alla sostenibilità o all’equilibrio nutrizionale.
Il mio primo contatto con un cibo dal colore inusuale, che ha incuriosito i miei occhi prima del gusto e dell’olfatto, è stato molto lontano dalle dinamiche social e di entertaining. Avevo 14 anni ed ero in Messico con mio padre. “Figliolo, ti farò conoscere il mio paese”. Un mese abbondante di scoperta, fascinazione, gastroenterite e daddy issues.
Eravamo appena usciti dalle rovine archeologiche di Cacaxtla, tra Puebla e Tlaxcala nel centro del paese. Piramidi Olmeche, sole aggressivo e un sacco di X.
Affamati dopo aver camminato tra le rovine ci dirigiamo verso le bancarelle del cibo. Non so che ora fosse ma in Messico non c’è un momento pasto e un momento no. In ogni istante c’è qualcuno che mangia, qualcuno che ci sta pensando e qualcuno che cucina. Ovunque.
Una vecchietta rugosa come un tronco d’albero attira la mia attenzione. Vende delle quesadillas (tortillas ripiene di formaggio) di un colore molto particolare. Sfumature azzurrognole, grigie e viola mi fanno pensare a un cibo venuto dallo spazio. O, per citare Lovecraft, un colore venuto dallo spazio.
Del resto, si dice che le civiltà precolombiane avessero un certo feeling con alieni di varia forma. Teorie complottistiche a parte, appena vedo queste tortillas inondo mio padre di domande. Dovevo provarle. Il sapore è intenso, più “terroso” delle tortillas classiche, in qualche modo aromatico. Si sposa benissimo con il formaggio e con il huitlacoche, un fungo patogeno del mais, edibile e delizioso. All’epoca non conoscevo il termine umami, altrimenti mi sarebbe venuto immediatamente in mente.
Il Mais è una vera e propria divinità in Messico. Letteralmente. Chicomecoatl è una delle dee della terra e delle messi, in particolare del Mais. È simbolo di fertilità e vita, è l’alimento cardine delle popolazioni mesoamericane. Ne esistono tantissime genetiche, solo per citarne alcune: quello bianco, quello giallo, quello viola e quello blu, o azùl, come si dice da quelle parti.
Quindi no, niente coloranti o estratti di ciliegia o barbabietola. Il mondo del Mais in centro America è articolato e spesso inedito per i palati europei o nord americani.
Il mais Azùl ha anche proprietà nutritive particolari che lo hanno reso un prodotto pregiato già in epoca precolombiana.
Secondo la rivista della Society of Chemical Industry, in una ricerca realizzata in accordo con gli scienziati dell’istituto Politecnico nazionale messicano, le tortillas blu hanno le seguenti proprietà:
- il 7% in meno di amido rispetto alle altre tipologie di mais
- un indice glicemico più basso
- il 20% di proteine in più
Queste proprietà, soprattutto per un paese come il Messico, dove diabete e obesità sono un problema molto diffuso, diventano preziose.
Chissà se un antico Olmeco, migliaia di anni fa, avendo Instagram e uno smartphone, avrebbe sentito l’impulso di immortalare la sua tortilla blu prima di addentarla.
Da sempre abbiamo la tendenza a idealizzare il passato della storia umana, immaginando epoche di innocenza e idillio austero. Possiamo dire con certezza però che l’aspetto estetico ha sempre avuto un ruolo cruciale nell’esperienza umana. Siamo esseri visivi. La sfida odierna potrebbe essere la ricerca di un equilibrio tra appeal estetico, proprietà nutrizionali e sostenibilità, riscoprendo tradizioni antiche e prodotti semi-dimenticati.
Al momento non è semplicissimo trovare la farina di mais blu in Italia. L’ultima volta che sono stato a Madrid, però, mi sono imbattuto in un ristorante messicano che serviva tortillas blu in quantità industriali. La tortilla azùl è ufficialmente entrata in Europa. Chissà se nel giro di qualche mese o anno la troveremo a colorare le vie italiane dello street food?