La sostenibilità secondo Valerio Serino
Negli ultimi anni la “sostenibilità” é diventata il mantra del mondo gastronomico... Come il factotum Figaro del Barbiere di Siviglia, “tutti la chiedono, tutti la cercano e tutti la vogliono”.
Un trend talmente consolidato e commercialmente rilevante da avere indotto anche la guida Michelin ad introdurre un nuovo pittogramma: un trifoglio verde a 5 petali da riconoscere ai ristoranti che si proclamano (a mezzo di questionario telefonico) adepti della sostenibilità.
Le nostre nonne e nonni mangiavano la carne una volta al mese, il pesce solo quando il mare non era mosso, i pomodori tra maggio e settembre, ortaggi fermentati nei mesi invernali... Da quando la “qualità della vita” é migliorata mangiamo pomodori pieni d’acqua e privi di dolcezza 12 mesi l’anno, i supermercati abbondano di pesci dalle pupille grigie e di filetti di carne, allegramente imbustati in vaschette di plastica, che non attendono altro che ossidarsi al primo respiro di aria fresca.
Se il ritorno ad un metodo di lavoro e di alimentazione sostenibile é sicuramente una necessità, un certo tipo di narrazione e marketing ne hanno fatto da cassa di risonanza. E se c’é un Paese che su quella narrazione ha costruito (e sta costruendo) una nuova tradizione ed identità culinaria, quello é sicuramente la Danimarca.
Il mio primo viaggio a Copenhagen risale ad oltre 5 anni fa. Ricordo ancora una dicitura sul menù del primo pranzo, nella location del Musling Bistro, ristorante del gruppo Space Copenhagen: “capesante pescate a mano”. Non ricordo come fossero servite, ma l’immagine del sub nelle acque gelide del Mare del Nord, baluardo a protezione delle scogliere, ha un fascino che non ha abbandonato la memoria.
Ne abbiamo parlato con lo chef Valerio Serino che, da Italiano, ha scelto proprio la Danimarca per raccontare la sua idea di prossimità, stagionalità e spreco ai minimi termini.
Romano, da 8 anni a Copenhagen, Serino e la compagna Lucia de Luca hanno cominciato la propria avventura con il Mattarello, un pastificio con laboratorio a vista e cottura diretta, all’interno del mercato coperto di Torvehallerne. Solo olio, limoni e vino dall’Italia, con rare incursioni di melanzane e peperoni. Dal settembre 2017, Tèrra, ristorante di cucina italiana contemporanea nel quartiere di Østerbro di Copenhagen, ed Emerging Italian Restaurant 2020 per il Gambero Rosso. Ristorante di cucina consapevole, omaggio ad una sensibilità biodinamica sviluppata sul riutilizzo degli avanzi, e romanticamente ispirata ad antiche memorie e nuove esperienze.
“La Danimarca é sicuramente uno tra i paesi più green al mondo o almeno con una chiara visione futuristica. Dal punto di vista culinario però ha una cultura gastronomica abbastanza recente che sta vivendo un boom grazie alla visione e contributo di René Redzepi. La sostenibilità é un concetto che é diventato trendy e di moda, ma sicuramente l’avvento della cucina danese moderna ha favorito una maggiore apertura verso un certo tipo di sensibilità e contaminazioni culturali.”
Essere a Copenhagen aiuta a sposare simili scelte di cucina?
Sicuramente. La realtà nella quale operiamo è sempre stata - per ragioni climatiche - povera di risorse agroalimentari. In questo modo ha sviluppato varie tecniche in grado di preservare i prodotti fino in fondo, dalla salamoia al sottaceto. Noi ne facciamo tesoro e in tal modo recuperiamo usi ancestrali, mettendoli in gioco e confrontandoli con quelli di diverse culture.
Non a caso nell’introduzione al “The Noma Guide to Fermentation”, Redzepi si riferisce alle fermentazioni, come “una storia di incidenti”: dai capperi di aglio orsino alla latto-fementazione dell’una spina.
Non tutte le cucine però, beneficiano in egual misura di un certo approccio. L'Italia, per esempio, è un Paese ricco dal punto di vista agroalimentare e spesso finisce per trascurare metodi di recupero che erano già in uso presso le generazioni passate. Al tempo stesso é una cucina vittima di stereotipi e di etichette che generano aspettative in contrasto con un certo modo di fare innovazione. Anche in Danimarca, per esempio, abbiamo incontrato le prime barriere con la pasta fresca e giornalmente ci scontriamo con richieste che contrastano il nostro focus su prossimità ed essenzialità.
Perché allora non intraprendere una strada più commercialmente fattibile?
Perché non é la sostenibilità ma l’etica che fa il cuoco un essere sostenibile. Abbiamo deciso di definirci un ristorante zero waste, massimizzando l’utilizzo degli scarti e di prodotti meno nobili. Il risultato é l’espressione di una cucina italiana contemporanea, una visione personale, che é allo stesso tempo, e inevitabilmente, cucina di contaminazioni. Gli elementi di italianità sono i sapori, l’accoglienza, lo stile, mentre un certo minimalismo ed impiattamento rimandano a tendenze nordiche ed asiatiche.
Come sono declinati i sapori?
C’é la Sicilia dei nonni e c’é Roma, una cucina di gusto. Un piatto che racchiude un po’ tutto é l’indivia. All’inizio viene fermentata in aceto e trasformata in pickle – con una preparazione che ricorda la Sicilia. Poi viene arrostita e laccata con un sughetto di rapa rossa – contaminazione asiatica – che permette di certi risultati senza l’utilizzo eccessivo di grassi. Infine viene servita su una salsa al parmigiano – con una nota di sapidità che ricorda il Lazio. All’aspetto non fa Italia, e certamente non fa tradizione. Ma è un piatto italiano nel gusto a tutti gli effetti.
Regalaci un altro piatto.
Un pomodoro. Il pomodoro proviene da una piccola fattoria fuori Copenhagen, gestita da una ragazza Rumena. Tempo fa ha piantato dei vecchi sementi di pomodoro ed il risultato é sorprendente. Il pomodoro viene lavorato leggermente sotto aceto, poi cotto al forno, arrostito e laccato con miso di pomodoro – preparato con gli scarti. Infine, viene aggiunta una nota erbacea con un olio all’origano fresco e viene servito al tavolo con un’acqua al pomodoro. Sapori decisi e forti.