L’essenza ligure di Giorgio Servetto al Ristorante Nove di Alassio

Giorgio Servetto è un cuoco di sostanza, un cuoco legato alla terra e al mare.

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Nei piatti ritroviamo la sua vita, le sue esperienze di bambino prima e adolescente poi, le lunghe estati trascorse tra Albissola e Sassello, dove c’è la casa di famiglia. Sassello è per Servetto linfa vitale, il suo buen retiro, l’isola felice dove ritrovarsi dopo tanto viaggiare. 

E dopo tante esperienze il viaggio lo ha riportato nella sua Liguria. 

Nel 2016 incontra la Famiglia Ricci e inizia la collaborazione con Villa della Pergola. All’epoca il ristorante proponeva una cucina semplice, per gli ospiti e qualche esterno. 

Il progetto della cucina parte da zero: Servetto ha carta bianca e la massima disponibilità da parte della famiglia Ricci. 

Inizia col personalizzare la cucina, disegnata dal team di Angelo Po, e adattarla a una struttura storica come quella di Villa della Pergola, un’oasi di pace, con un parco botanico di 22 mila metri quadrati unico nel suo genere sulla collina di Alassio. 

La Villa è sempre stata la destinazione prediletta della nobiltà inglese che qui amava svernare, lontano dal lungo inverno britannico, freddo e piovoso. 

Ora accoglie ospiti italiani e internazionali e il luogo di charme è entrato a far parte della prestigiosa famiglia Relais Chateaux.

E poi c’è l’Orto Rampante, un progetto prezioso non solo per Villa della Pergola e il Ristorante Nove, ma per tutta la città d’Alassio. Affidato all’architetto Renzo Piano e al suo Building Workshop sorgerà sulla collina, là dove c’è la casa dello scrittore e pittore Carlo Levi. 

Il nome vuole essere un omaggio all’opera “Il Barone Rampante” di Italo Calvino che aveva l’abitudine di arrampicarsi su per la collina per andare a trovare l’amico Levi e farsi fare un ritratto. L’Orto Rampante si ispirerà alle serre liguri, un terreno a terrazzamenti e consiste in tre serre realizzate in legno e vetro posizionate a diverse altezze sulle colline di Alassio.

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Una curiosità: perché avete deciso di chiamare il ristorante Nove?

Il nome Nove è stato scelto una sera pre-natalizia dopo un summit familiare dei Ricci, ed è il numero civico. Poi nel tempo i nostri ospiti vi hanno letti curiosi e divertenti significati: nove è multiplo di 3, il numero perfetto; nove sono i mesi di gestazione; nove vuol dire nuovo.

Una cucina su misura, spazi e stanze dedicate, all’interno di una villa storica.

Abbiamo diviso le varie stanze a seconda delle necessità. Desideravo una cucina che fosse logisticamente adattata per rispondere alle nostre esigenze. 

40 coperti con una piccola cucina, una mole di lavoro importante se consideriamo che facciamo tutto, dal cioccolatino al grissino. Colazioni, servizio ristorante, snack bar, room service, pool service.

In cucina siamo dieci! Lavoriamo insieme da tre anni, sono ragazzi giovani, molto volenterosi, vanno accompagnati nel percorso.

Quanto incide nella creazione dei tuoi piatti lavorare in un luogo come questo, immerso nella natura?

È fondamentale, ma lo è perché ci troviamo in Liguria. La Liguria, contrariamente al credo popolare, è terra di vegetali, non di pesce o di carne. Abbiamo anche quello, ma fondamentalmente un buon 65% delle ricette liguri sono vegetali, sono arricchite di erbe aromatiche; poi la tradizione del pesce azzurro, quello che molti, sbagliando, definivano pesce povero.

Oggi, vuoi un po’ la mancanza di pesce, vuoi che la cultura (per fortuna) è cambiata, si è data maggiore importanza a qualità di pesci che prima erano un po’ (troppo) bistrattati. All’interno del parco botanico abbiamo erbe aromatiche a non finire, un grande agrumeto, piante di avocado, di mirto.

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La fortuna di avere a disposizione un orto dove vengono coltivate buona parte delle verdure e degli ortaggi che usate al ristorante. Una bella opportunità, sei d’accordo?

Certo, avere a disposizione 6000 metri quadri di orto non è cosa da tutti, l’autoproduzione raggiunge il 90% del fabbisogno della cucina. Per il 10% mancante, mi affido a contadini locali, vado al mercato. 

Sono coinvolto in prima persona nella gestione delle coltivazioni, mi confronto quasi quotidianamente con chi gestisce l’azienda agricola. Per prima cosa abbiamo ragionato sulle nostre necessità e sui prodotti di cui avevamo bisogno. 

A fine stagione del 2020 abbiamo organizzato un planning, deciso cosa piantare/seminare, programmato tutto nei minimi dettagli per evitare sprechi. Pianifichiamo gli ordini settimanalmente; alla mattina presto i ragazzi raccolgono e alle 9:30 ho tutto in cucina.

Nei tuoi piatti troviamo un’ispirazione molto vegetale, ma anche pesce, molluschi, crostacei, carni bianche. Il Nove è il menù degustazione, un viaggio attraverso il mondo, un gioco tra ingredienti locali e lontani.

Sono un nazionalista estremo, alla francese, Ligure molto radicato, ma allo stesso tempo mi ritengo una persona molto elastica; nel menù Nove facciamo un piccolo giro del mondo con altrettanti prodotti: la salsiccia di ventresca di tonno, è un piatto tipicamente spagnolo; la servo con rafano, Pata Negra e patate dell'Orto.

Alassio è storicamente un paese di tonnarotti: i pescatori andavano in Sardegna, a Carloforte, per la mattanza dei tonni. Venivano pagati al 50% con denaro e la restante parte con prodotto, con tutto ciò che era considerato lo scarto del tonno, che poi scarto non era. È nella nostra tradizione.

Nel menù c’è un risotto, che è una provocazione: è la base della zuppa di pesce, il  Ciupin, ha un gusto potente. Lo abbiamo concentrato talmente tanto, che non usiamo sale. Alla base ci sono delle verdure disidratate per dare salinità, la concentrazione del fondo. Da 50 litri di fondo di pesce arriviamo a un litro; per farvi capire cosa c’è dentro al Ciupin. Lo definiamo uno schiaffo di mare.

La Licata, lo stringhettone, è di nuovo un altro piatto con carattere. Ma d’altronde vogliamo che sia così, spiazzante. Bisogna spiegare alle persone che cosa proponi, in modo da fargli capire il lavoro che c’è dietro. Comprendere se può far parte del loro palato gastronomico oppure no.

Qui non si butta via nulla, per rispetto della sostenibilità della terra, nella lavorazione dei vegetali, come nei prodotti animali. È la nostra filosofia, anche se oggi sembra più una moda. In realtà tutti dovremmo sviluppare una sensibilità vera verso queste cose. Per me è un credo, una religione. Non voglio sembrare estremista. Le fragole vanno mangiate a Maggio/Giugno, non a Febbraio o Marzo. 

Il 4 Giugno abbiamo riaperto, ho organizzato il menù. Non trovavo totani, non trovavo tonno. Ho cambiato i piatti. Poi quando trovi il tonno in certi locali non sai da dove arriva; di sicuro dai freezer. Questo è assurdo. Dobbiamo essere meno egoisti. Alla fine c’è sempre il denaro dietro: per guadagnare diventa una rincorsa al soldo che non ha più senso.

Se non avessi a disposizione un orto, un giardino così rigoglioso, la tua creatività avrebbe stimoli diversi? 

No, perché sono cresciuto in campagna, tra la Liguria, il Piemonte e la Francia.

Sono cresciuto e diventato Giorgio Servetto grazie al mio percorso di vita, tra la campagna, il mare; correndo in mezzo alla neve, in mezzo all’erba appena tagliata. L’importanza di annusare l’aria, l’umido, i funghi nel bosco. 

Cerco di far capire ai ragazzi che devono sviluppare tutti i sensi.

È un discorso molto ampio. Il rapporto che c’è e che continuiamo a sviluppare con i piccoli produttori. Da tre anni a questa parte abbiamo tagliato tutta la GDO: tre macellai diversi per la carne, uno è a Sassello. Si parte da qui e si va a comprare. 

Lo stesso discorso per i conigli. Lo stesso per i pescatori. È qualcosa che va oltre il rapporto professionale. Si creano delle chimiche, delle complicità. 

Vado al mercato tutte le mattine. Per il momento l’orto non produce frutta, quindi la devo comprare. Mi piace andare al mercato: bevo il primo caffè della giornata lì al mercato, non al bar. Due chiacchiere, lo sorseggio e poi si inizia il giro di spesa. 

La pandemia, secondo te, ha cambiato la percezione delle cose, le persone sono cambiate?

Lo scorso anno pensavo di sì. Ora in realtà sono molto titubante. Noi, qui, viviamo in un’ isola felice, le persone sono molto sensibili. C’è stata una parvenza di miglioramento, poi quando mi confronto con le altre persone percepisco la cattiveria. Lo trovo brutto, soprattutto dopo quello che abbiamo passato. Questa situazione avrebbe dovuto insegnarci ad essere più sensibili, più altruisti, più empatici. 

Lo stop forzato a causa del Covid per me è stata, se posso dirlo senza essere frainteso, una benedizione; sono cambiato. Ci siamo dovuti fermare per forza, stoppare la frenesia che ci stava mangiando.

I ragazzi rendono di più, quel poco tempo libero a disposizione è una manna, rilassa la mente, si svagano, un bagno al mare, una passeggiata.

Mio papà è mancato a 62 anni, troppo giovane. Io vorrei vivere un po’ più a lungo, una vita piena e soddisfacente. Dobbiamo volerci più bene, prenderci il tempo che è necessario.

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Crede che l’avvicinarsi alla cucina, ai prodotti della terra, la vita nella fattoria dei tuoi genitori a Palo di Sassello, abbia stimolato quello che poi è diventato il tuo mestiere? 

Ci sono dei capisaldi nella mia memoria che lego a momenti delle diverse stagioni. A Giugno si andava al mare: ho ricordi di polpi, patelle, di profumi intensi. 

A Luglio in campagna, l’orto, i conigli, il latte caldo appena munto. Fino a 14/15 anni le mie estati erano così. Poi ho iniziato a lavorare. Credevo di aver rimosso queste cose, invece poi le ho ritrovate tutte dentro di me.

Per me è, innanzitutto, la riconoscenza verso i miei nonni, i miei genitori. Sassello per me è casa. Con la professione che faccio, sembro uno zingaro, non ho una base. Ma tutta la mia vita vissuta e da vivere è lassù, a Sassello: lì è nata mia madre, lì è mancato mio padre. A Settembre ho ricordi di funghi secchi sul graticcio ad asciugare, le confetture che bollivano nei bidoni, i succhi di frutta. 

Ci sono tutti questi pezzi di vita, aromi che provo a replicare nei miei piatti. Voglio ricreare questa accoglienza, non solo il gusto, ma il calore di casa, quello che mi ha cresciuto. La prima neve con lo sciroppo di rose di mia nonna. 

Per questo insisto con i ragazzi, cerco di sviluppare i loro ricordi. Li porto con me, a Sassello, andiamo al fiume a pescare; sono la mia famiglia. Cerco di trasmettergli il mio background, quello che mi ha fatto arrivare dove sono oggi.

Arrivo dalla vecchia scuola, alberghiero a Finale. Avevo un professore vecchio stampo, molto duro, ma è quello che serve per crescere. Quando è arrivata la stella è stata la terza persona che ho chiamato. Lui mi ha dato quella disciplina che oggi cerco di trasmettere ai ragazzi in un clima molto più morbido e tranquillo: la mattina si arriva in cucina e si ascolta la canzone della stagione, si gioca, si scherza. Adesso ascoltiamo Caffè Moliendo di Mina. Un clima bellissimo, che ci porta a stare insieme anche nel giorno libero. Perché stiamo bene. Quando trascorri tante ore gomito a gomito, metti a nudo la tua intimità, sotto ogni aspetto.  Portarli fuori è voler dimostrare che tieni a loro e non lo fai solo per convenienza. Ho fatto molta fatica a trovare questo gruppo, ci tengo moltissimo. Devo star bene ed essere felice.

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