Marco Ambrosino: Di Popoli, di Origini e di Terre

Riflettiamo con lo Chef Marco Ambrosino sul ruolo del Mediterraneo nella società contemporanea, nella cucina realmente sostenibile e nella vita quotidiana.

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La parola Mediterraneo è di uso comune, spesso associata ai concetti di dieta e benessere, accostata talvolta a nozioni errate o leggende popolari. Ma le caratteristiche peculiari di questa area potrebbero divenire base virtuosa per un futuro di consapevolezza alimentare e sociale. Affrontiamo il tema con Marco Ambrosino, Chef campano dal piglio nordico e fondatore del Collettivo Mediterraneo, progetto di inclusione sociale ed intellettuale che ne racconta multiculturalità e biodiversità.

Con Ambrosino abbiamo guardato al tema in relazione al futuro dell’alimentazione, del fine dining e di una società che prova ad essere sempre più bilanciata, con scarsi risultati.

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Al ristorante andiamo comunque per consumare quello che sarà uno dei pasti della settimana: troppi menù degustazione sono opulenti e non particolarmente salubri. Cosa ne pensi?

Personalmente trovo che il menù degustazione sia il modo migliore di esperire la cucina creativa, ma non dovrebbero esserci regole fisse. Spesso noi cuochi dimentichiamo di porci al servizio dei clienti pretendendo stomaci vuoti, attenzione totale e pellegrinaggi di massa. In fin dei conti il ruolo del ristorante è da sempre quello di nutrire si, ma creando al contempo un’esperienza diversa da quella quotidiana e domestica. Godere della compagnia, celebrare un’occasione: eventi che non devono essere sottomessi alla necessità di esplorare l’universo gastronomico di uno Chef. Logicamente i percorsi di alto livello devono assumere valore e differenziarsi dal nutrimento quotidiano, ma senza perdere l’attenzione al “dopo”, alla digestione, al ricordo.

Talvolta si esce dal ristorante completamente distrutti e provati dal pasto, portando questo brutto finale anche nella memoria di una piacevole serata.

È logico che la clientela sia variegata, formata da mangiatori incalliti che viaggiano il mondo per assaggiare e da persone meno interessate che intendono passare qualche ora in modo differente, senza volersi addentrare nei dettagli di processi tecnici o artistici. Negli anni abbiamo ridotto i coperti, ristretto l’offerta e scremato la clientela, trovandoci di fronte a ristoranti blasonati ma poco sostenibili sotto molti aspetti. L'alta ristorazione deve pensare ad aprirsi, perlomeno in larga parte, a più individui: il cibo illuminato per pochi eletti snatura il concetto stesso di cucina e dovrebbe essere proposto da pochi cuochi, che ricerchino l’avanguardia in maniera unica ed autentica.

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Si parla molto di “Dieta Mediterranea” e salute, spesso seguendo falsi miti e leggende metropolitane. Cos’è, per te, una dieta bilanciata?

Il principio basilare a sostegno di una dieta corretta risiede nell’idea di biodiversità e differenziazione. Dobbiamo nutrirci di tutto ciò che la prossimità ci dona, lasciando spazio prevalente ai vegetali: non è più possibile o raccomandabile imporre la nostra volontà alla natura, ad un mare stanco, ad un terreno sterile.

Verdure, frutti, cereali e legumi, ma anche vegetali marini, diventano voce narrante di una bilanciata alimentazione coronata, in rare occasioni, da proteine animali.

Diventa dunque evidente come l’offerta della grande distribuzione, vera forza trainante della domanda, si debba riposizionare su onde diverse.

Ricordo ancora, durante il mio periodo di stage al Noma, come i supermercati locali avessero iniziato a vendere nuove varietà di vegetali, grazie alla fama per l’uso che René Redzepi ne faceva. Un interessante esempio di come l’industriale segua lo Chef e aggiusti il tiro.

In fin dei conti questi ultimi anni ci hanno permesso di essere virtualmente ovunque e partecipare al dibattito collettivo in tempo reale e da ogni angolo del globo.

Credo che i veri professionisti debbano potersi distringere da chi ha solamente un’opinione, altrimenti si rischia di validare la parola di chiunque, senza distinguere tra Chef illustri e content creator che cucinano, tra esperti della nutrizione e dietologi da tastiera. Dalla nostra spesa passa il futuro del nostro stesso benessere, ed è un carico troppo fragile da lasciar cadere in mani sbagliate.

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Negli ultimi anni si è sviluppata un’interessante dicotomia tra l’esplorazione di nuovi cibi e la ripresa di ingredienti e tecniche antiche. È davvero la strada migliore per il futuro?

Penso proprio di sì.

Per decine di anni i cuochi si sono ossessivamente concentrati nell’affinare le tecniche, senza considerare minimamente quella parte di studio degli aspetti che circondano la materia prima, vedendola solo come un mezzo per raggiungere lo scopo del gusto perfetto. È un’esercizio di ego.

Oggi non abbiamo più scuse, ognuno ha i mezzi per approfondire l’origine di un grano antico, piuttosto che la stagionalità del pesce o l’importanza delle specie invasive.

Questa commistione di nuovo e passato fonda proprio l’approccio mediterraneo alla cultura alimentare: la dieta mediterranea di cui parlavamo prima non è un qualcosa di recondito che riusciamo a mantenere intatto, ma una continua stratificazione di livelli, di stimoli lontani, di origini diverse. Si pensi al pomodoro, icona dei ricettari italiani, ma dopotutto introdotto nel paese non troppo tempo fa.

Non dobbiamo dimenticare che le vere fondamenta dell’approccio mediterraneo, come la fermentazione che da sempre caratterizza i paesi del bacino, sono spesso frutto di errori di trasporto e conservazione, ma oggi si sono trasformate in un patrimonio di sapori inimitabile.

Ma non dobbiamo dimenticare neanche che è proprio l’interazione tra popoli che ha reso ricca la cultura culinaria del luogo: la pizza deriva dalla pita, la parmigiana è stata portata dagli arabi, e potremmo andare avanti a lungo; è molto emozionante questa unione di ingegni, questa influenza di gusto: si dona nuova vita alla vita stessa, si ricarica e la si salvaguarda nel suo viaggio verso il futuro. E il futuro abita proprio la condivisione delle tecniche e delle idee, a fronte di una capillare località, di una prossimità di prodotto.

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No waste. Utilizziamo lo scarto o lo creiamo? Come usciamo veramente da questa distruzione del suolo?

Oggi lo scarto viene interpretato da troppi cuochi come un esercizio, come un modo di mostrare la propria bravura. Da altri come un tentativo ipocrita di essere o sembrare sostenibili.

La verità è che spesso questo lo creiamo quasi apposta. Tutto sommato il concetto di scarto è cosa moderna, coincide con la raffinazione delle tecniche culinarie, non esisteva prima.

Per giustificare certe azioni superflue vediamo preparare chips di pelle di radici, lavate sotto tanta acqua, infornate, magari cotte in buste di plastica sottovuoto: siamo sicuri che tutto questo spreco valga qualche buccia? Non sarebbe meglio cucinare la radice intera e non pelata? Le radici hanno veramente una buccia? E poi ci sono le frattaglie: e il resto dell’animale? E poi ci sono i gambi dei vegetali: e le polpe?

Dobbiamo modificare il racconto e renderlo più pragmatico, comunicare attraverso il potere mediatico dei grandi Chef e scalare industrialmente le buone pratiche agricole dei piccoli. Ci vogliono molta forza di volontà e spirito di adattamento, dobbiamo ritrovare la cucina di un tempo, fatta di cotture intere e senza scarti, ma solo riutilizzo di avanzi; dobbiamo ritrovare il piacere di una clientela quasi esclusivamente locale e limitare il concetto di ristorante internazionale; dobbiamo capire che sul suolo ci camminiamo, non possiamo più continuare ad offenderlo.

Progetti come quello del Collettivo Mediterraneo aiutano a far luce sulle origini, su quelle colonne solide che hanno permesso la progressione di un’umanità che oggi sembra tanto a rischio. Abbiamo pensato di poter modificare un mondo naturale che pensavamo essere altro rispetto a noi, con conseguenze devastanti.

Una reazione è necessaria, è richiesta: una nuova generazione di Chef consapevoli agisce verso questo spinoso e faticoso problema e dovremmo tutti porci in ascolto verso il Pianeta, comprenderne le delicatezze e curarlo, curarlo da noi stessi, dalla nostra brutalità. Lo dobbiamo fare, forse, sopratutto per noi: magari la sopravvivenza non è ancora in dubbio, ma per quanto ancora potremo goderci un mondo ben vivibile?

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