Mariangela Susigan: Sostenibilità come abitudine materna

Parliamo di sostenibilità, stella verde Michelin, di ricordi e giovani con la Chef Mariangela Susigan, regina del ristorante Gardenia.

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Siamo a Caluso, borgo medievale del Canavese ricco di storia, data la sua strategica posizione geografica. Ma la bella cittadina ospita anche uno dei ristoranti più interessanti d’Italia: il Gardenia di Mariangela Susigan, stella rossa e stella verde Michelin.

La propria storia personale ha portato la Chef franco-piemontese, ad essere solido punto di riferimento nel panorama della gastronomia sostenibile.

Con lei, abbiamo parlato d’infanzia, natura e responsabilità, ma anche di bellezza ed impegno.

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Ci racconteresti la tua storia?

Ho avuto la fortuna di nascere da genitori già appartenenti al settore, avendo loro lavorato come coppia in diversi castelli francesi. Mio padre curava l’orto ed il giardino, mentre mia madre era cuoca. Dopo la mia nascita siamo tornati a Caluso dove, nel 1977, abbiamo aperto il nostro ristorante, che poi si sarebbe trasformato nel mio Gardenia di oggi. Dai primi anni di sala, sono passata ad affiancare mia madre in cucina e gradualmente sperimentare nuove ricette al di là di quelle tradizionali piemontesi. Quasi una cucina doppia, due filosofie parallele: beati i nostri clienti!

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Come definiresti la tua cucina?

Gustosa, estetica e sostenibile. Devo molto a mia madre in questo senso.

La sua tendenza, nonostante fosse poi espressa in maniera più classica, era sempre verso l’utilizzo di prodotti eccellenti, freschi e di prossimità, anche quando il concetto di sostenibilità non esisteva.

Mangiavamo poca carne di alta qualità, avevamo un enorme orto e raccoglievamo tante erbe selvatiche: una cena poteva consistere in un uovo cotto con quelle erbe o dei radicchi e del formaggio oppure in una minestra brodosa di riso o patate. Una schiettezza e limpidità di gusto rare da trovare oramai, ma di altissimo valore.

Ed io oggi cucino così: la natura, l’ingrediente, sono i padroni del piatto e ne devono uscire pienamente esaltati. È una sana cucina di territorio, ma filtrata attraverso una maglia finissima di culture altrui. Una saggia e rispettosa appropriazione di procedimenti che danno modo di riscoprire il proprio territorio in una maniera totalmente sorprendente.

Quindi alcuni piatti sono tradizionali, ma molti sono vegetariani ed incentrati sulle piante. Parlano di luoghi, momenti e trasmettono sensazioni attraverso forme e colori.

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Le erbe sono parte essenziale di Gardenia. Cosa ti ha indotto a studiarle?

Una ventina di anni fa, per rilassarmi durante le chiusure, andavo a fare lunghe camminate nelle zone montuose della Valchiusella, trovandomi spesso a contatto con tantissime specie di erbe. Così la mia curiosità mi ha spinto, grazie all’aiuto di esperte guide, ad iniziare a raccogliere queste meraviglie spontanee, che hanno sempre più caratterizzato la mia espressione culinaria.

Oggi ne conosco un centinaio: questo significa essere familiari con le brevissime stagionalità e con le diverse tipologie di terreno e di ambiente in cui crescono.

In queste zone, così come in molte altre nel mondo, si è sempre fatto: avere mucche al pascolo, trovarsi nei prati e raccogliere qualcosa per la sera è un meccanismo di quotidiana necessità. Trovo molto bello che grazie ad internet, ma anche a noi chef, queste pratiche vengano divulgate e di conseguenza mantenute vive. E se è vero che sono talvolta considerate novità pur non essendolo in valore assoluto, è anche vero che relativamente alle nuove generazioni risulta una pratica diversa e, appunto, “nuova”.

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Sostenibilità. Cosa significa per te la “stella verde”?

La stella verde, che abbiamo conseguito dopo più di venti anni di stella rossa, è stato un bel riconoscimento dell’accurato lavoro che cerchiamo di svolgere ogni giorno al Gardenia. Anche se per me certi comportamenti sono un’eredità materna, un patrimonio presente nelle mie vene, per così dire.

La sostenibilità, da noi, va oltre l’utilizzo principale di proteine non animali e si concentra sulle ricerche in ambito di etnobotanica, che studia gli usi delle specie vegetali all’interno di una cultura e di fitoalimurgia, che invece le trasla in campo alimentare. Questo ci permette di portare avanti un lavoro più profondo ed utile all’ecosistema nel quale siamo inseriti.

Contestualmente avviene un puntuale supporto ai piccoli produttori locali, che rappresentano quella nicchia virtuosa di bellezza, tanto fondamentale alla ricca eterogeneità del nostro paese.

Tanti prodotti provengono dal nostro orto: lo spazio verde che possediamo si è ingrandito molto e conta centinaia di varietà tra frutti, verdure, bacche, erbe e fiori, che ciclicamente vengono utilizzate nel menù. Tutto viene considerato, ogni singola parte, magari in fermentazioni o in fondi vegetali; ed i rifiuti organici vengono poi destinati al compostaggio, nel rispetto circolare della vita naturale.

Un bell’esempio in tal senso è il “Ramen in Canavese”, fatto con dei tagliolini di Canapa, un kimchi di rucola, del brodo di bucce ed un miso di fagioli locali. Tutto volto, perciò, ad una lavorazione poco impattante delle materie prime caratteristiche di queste terre.

Inoltre, vi è un’altra sostenibilità: quella sociale. Lavoriamo in progetti di inclusione nei confronti di immigrati o rifugiati in cerca di lavoro e re-distribuiamo gli esuberi di cibo, o dell’orto, a diverse associazioni. Queste sono forse le soddisfazioni più grandi dietro al nostro lavoro.

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Quali consigli daresti ai giovani che si approcciano al mestiere?

In questi ultimi anni la moda televisiva ha regnato sovrana sulle nuove generazioni. Ultimamente i social media ampliano ulteriormente la visione. Andrò in controtendenza, rispetto a qualche collega, dicendo che questi programmi o video aiutano le famiglie ed i giovani ad avvicinarsi alla materia. Più si parla di qualcosa, più sensibilità e conoscenza si creano. Starà ai ragazzi crescere e diventare consapevoli, coltivando il talento che risiede in loro.

Ovviamente sappiamo come il mestiere richieda molto sacrificio personale, sicuramente dettato da una forte passione, da un fuoco interiore. Siamo al servizio delle persone e dobbiamo essere in grado di adattare la vita privata di conseguenza. Ci vuole tanta pratica, si diventa Chef dopo un’esperienza prolungata. Cultura culinaria, umana ed economica: queste sono le basi solide per una carriera piena di soddisfazioni.

Potete andare a trovare la Chef nel suo virtuoso ecosistema Canavese, riscoprendo la gioia e la forza gentile della natura.

Una cucina decisa ma contemporanea, dolce ed elegante, che segue i ritmi odierni dell’uomo e quelli antichi della Terra e si traduce, magicamente, in una bellissima sinergia tra società ed ecosistema.

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