Michele Valotti: L’Imperfezione è Vita

Parliamo di etica, vita e sostenibilità con Michele Valotti, autore del “Manifesto di Cucina Viva”.

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Michele Valotti è uno di quei rari chef dalla personalità tanto spiccata, da poter essere difficilmente categorizzato in uno stile. Mangiare alla sua “Madia”, in Brione, significa aspettarsi di tutto: da una pancetta di maiale brado perfettamente stagionata ed accompagnata da ciliegie conservate come olive, ad un brodo di miso di caffè verde; da antiche varietà di polenta che tracciano i sentori del miele, a candele di grasso di pecora, pronte a consumarsi inesorabilmente di fronte al cliente ed essere abbinate agli intensi e profumati pani al posto di burro ed olio. Un’invito a riflettere sullo scorrere del tempo, sulla non linearità della vita, sulla possibilità di contenere moltitudini discordanti ed essere in un continuo cambiamento interiore; al fare ciò che si sente vicino in quel momento, senza forzature stilistiche, senza dover per forza cercare un’apparente complessità.

Con lui ci siamo soffermati sui perché della sua cucina, concentrandoci sull’etica, sulla vita e sulla magia dell’atto del mangiare.

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Cosa ti ha portato verso questo mestiere?

In realtà ho iniziato per necessità, mi ci sono trovato dentro. Provengo da una famiglia di contadini e ho intrapreso studi da perito agrario ed in filosofia, non esattamente orientati verso la carriera di cuoco.

Tutte queste cose mi hanno però aiutato, ad esempio, nel rapporto sincero e stretto con i produttori che mi forniscono la materia prima: qualcosa ci unisce, parliamo lo stresso linguaggio.

Ho capito come poter dare un taglio diverso alla mia proposta: avevo voglia di essere diverso, unico; di esprimere i miei pensieri, le mie passioni e le mie critiche sociali attraverso il maestoso compito di nutrire le persone. In fin dei conti lavoriamo anche per dare un senso alla nostra vita, per offrirci al prossimo e sentire di essere utili ed apprezzati. Per cercare, in maniera del tutto propositiva e pacifica, di stimolare l’altro verso la nostra visione del mondo.

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Ci parleresti del tuo “Manifesto della Cucina Viva”?

Il Manifesto è un insieme di tracce che compongono le basi della mia cucina e si fonda sull’etica ed il buon senso, parla di salute e responsabilità, dell’imprescindibile legame con i piccoli produttori artigianali del territorio: i veri eroi, custodi del mondo sano.

Una prima sezione è dedicata ai prodotti vegetali, che devono essere stagionali e quanto più possibile di antiche varietà (al plurale, perché ne esistono tantissime). Le carni, poi, devono provenire da animali liberi, o cacciati responsabilmente, ed essere gestite in quantità limitate. Stesso discorso con formaggi, farine e altri. Poi ci spostiamo sull’importanza delle fermentazioni autoprodotte, come le verdure latto-fermentate, il miso, il garum e la kombucha, in quanto svolgono un’azione attiva per il benessere del nostro corpo, sono microbiologicamente vive. I vini saranno accurata selezione di vignaioli biodinamici e naturali, guardiani magici che assicurano bottiglie sempre nuove, ammalianti e divertenti. Questi punti, e molti altri, garantiscono un piatto sano, sostenibile, nutriente, stimolante ed assolutamente appagante. Rifiutano l’utilizzo di additivi, pesticidi e fertilizzanti, veleni onnipresenti nella grande distribuzione e pericoli abnormi per ogni forma vivente.

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Come riprendi questi punti nella tua tavola?

La mia è una “Cucina Viva”, già, perchè contrasta la standardizzazione dell’industria, che vuole ogni prodotto morto ed uguale al precedente. Ogni volta che consumiamo un alimento industriale questo risulta perfetto, aspettato, prevedibile, triste. Un prodotto veramente artigianale è in continuo mutamento, è una sorpresa perenne. Ed il piacere della vita non sta forse nella continua scoperta? Si ama quando il partner è fonte di conforto ma anche di stimolo; la caduta nel quotidiano uccide interiormente e l’arte deriva dalla distruzione delle certezze, così come il progresso. Si persegue dunque una cucina quotidiana, devota all’espressione temporale dell’ingrediente, sempre diversa: non ti bagnerai mai nello stesso fiume, diceva Eraclito, e non mangerai mai lo stesso piatto, aggiungerei io. Tagliare due formaggi del medesimo tipo, prodotti a distanza di un mese, deve dare un risultato diverso: poiché diverse sono le condizioni degli animali, della stagione, del luogo; e diverse sono le storie personali e le molteplicità di chi, con amore, lo ha realizzato. Perché è bello non sapere cosa ti aspetta, ti fa tornare il bambino che scartava un regalo, sorpreso e felice.

Tutto questo lavoro fa sì che i miei piatti siano specchio di un preciso attimo, una fotografia, e non vengano quasi mai ripetuti. Nessuna ricetta viene scritta, non ne ho il motivo: un domani avrò un porro diverso, un fermentato diverso, un “io” diverso.

Alla Madia cerchiamo l’imperfezione, sintomo del guizzo umano ma anche della naturalità selvaggia, non appiattita dalla chimica: se un piatto deve essere amaro, sarà amaro, senza inseguire un improbabile equilibrio.

In tal senso posso definire la mia, una cucina di “errore”: quell’aspetto possente e spesso sottovalutato che riporta alla non-perfezione che ci abita, al concetto di umore, di emozione. In fondo è proprio questo ciò che ci differenzia dalla macchina: l’abilità di non riuscire sempre, di realizzare una bellissima sbavatura che, in un mondo perfezionista, è aria fresca. Perché è la semplice conseguenza dell’essere in evoluzione, del continuo imparare, dell’eterna lotta a distinguerci gli uni dagli altri. Lo sbaglio rende il momento prezioso ed irripetibile nella sua assoluta unicità, crea poesia, vita, energia: la perfezione attrae, ma l’imperfezione fa innamorare. Molti vogliono costruire un mondo razionale, ottimizzato, asettico ed in linea retta, non accettando il fatto di essere viventi irrazionali, speciali.

La tecnologia diventa pertanto amica, ma al solo fine di ottenere una preparazione meno alterata rispetto alla sua origine, senza mettere in scena orpelli e farse.

Crediamo profondamente in tutto questo ed offriamo noi stessi al servizio degli ospiti, che proviamo a stimolare e divertire, giocando in contrasto alle loro certezze.

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La tua è una delle realtà italiane più vicine, abbiamo visto, all’ambiente. Parliamo di sostenibilità oggi?

Credo che oggi il mondo soffra di una sorta di ipocrisia generale, di volontà di abbattere sensi di colpa e responsabilità il più velocemente possibile e senza sforzo. A livello industriale vedo questa cosa con, ad esempio, le carni. Spazzature ultra-processate dalle forme improbabili [come l’affettato a forma di orsacchiotto che lo chef ha visto in un supermercato] e non riconducibili a qualcosa di commestibile: facciamo di tutto per evitare di confrontarci con la morte, ci giriamo dall’altra parte. De-caratterizziamo completamente l’animale, in modo da far dimenticare ai compratori il delitto compiuto.

Ma la soluzione sta, invece, nella consapevolezza. Sta nel riconoscere che dietro ad ogni grigliata vi è un “omicidio” di un essere vivente che va perciò rispettato al massimo.

Nel mio mondo ideale la carne si dovrebbe comprare viva, uccidendo poi l’animale e guardandolo negli occhi, mentre esala l’ultimo respiro: capiremmo tutti, per davvero, come si deve essere sostenibili, saremmo grati per sempre a quella vita. La responsabilità del sacrificio sarebbe nostra e non più dell’industria: non butteremmo più alcunché, ci preoccuperemmo della dignità degli altri viventi.

Non sono contro l’industria. Ma questa dovrebbe far riconoscere il proprio prodotto come chiaramente non naturale, senza giocare con trucchi di comunicazione e arrampicate sugli specchi. Soprattutto non dovrebbe invadere il piccolo spazio “finito” del produttore artigianale, continuando a mangiarne il profitto.

La sostenibilità costa, costa tanto, ma bisogna essere disposti a pagare un piccolo pegno ora, per non pagarne uno incredibilmente alto poi.

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Il dialogo è chiaro ed incisivo, fa riflettere su molti temi, difficile raccontare tutto. Ma la cosa più complessa resta descrivere l’esperienza palatale, sublime nella già citata imperfezione, nel gesto quotidianamente differente. Michele Valotti è un cuoco spirituale e materico, fieramente incerto in un mondo di certezze, volenteroso di errore al fine di migliorare, di mutamento al fine di crescere. Un’esperienza, quella della Madia, che oggi si pone come centrale nella ricerca di un mondo più giusto, più etico, più bello. Un mondo da respirare ed esperire, da mangiare, da bere e da amare. Un mondo vivo. Ma noi siamo Vivi?

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