Perché lo street food palermitano è un pilastro indiscusso della identità gastronomica italiana.
Lo street food oggi rappresenta non solo l’anima della cultura del gusto, ma anche il più importante vettore della comunicazione gastronomica palermitana, detonante al punto tale da poter essere candidato a patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Emblema d’integrazione, di contaminazioni etniche e di antropologia relazionale, lo street food richiama tutti attorno alle friggitorie, agli ambulanti ed ai banchetti di vendita nei mercati storici o lungo le vie del Cassaro, creando veri e propri luoghi d’incontro e di pellegrinaggio, dove si respirano pura convivialità e fragranze che perpetuano life style, rivelando l’indissolubilità di tutte anime del crogiolo culturale siciliano.
La consuetudine di mangiare per strada o passeggiando, risale almeno alla dominazione greca, i banchi di cibo possono essere considerati come un’evoluzione dei thermopolium, dove si mescolano tradizioni alimentari romane, arabe, normanne, ebraiche e spagnole.
A Palermo è proprio il tessuto urbano ad invogliare a godere della città anche consumando pasti veloci immersi in un contesto museale a cielo aperto, apprezzando stratificazioni che è immediato traslare dalle architetture moresche, normanne o dalle policromie liberty ai sapori della proposta gastronomica.
Generalmente in Italia le icone dello street food si identificano in preparazioni definite e codificate: la pizza, la piadina, la focaccia genovese o di Recco al formaggio, il lampredotto fiorentino o il cuoppo di pesce fritto ad Amalfi per citarne alcuni, mentre a Palermo è protagonista una vera e propria antologia street food. Una sfaccettata molteplicità che contempla un’offerta riassumibile in tre capitoli fondamentali che incontra i gusti di tutti, dai vegani ai palati audaci, dai crudisti ai devoti del fritto: la pasta di pane, il quinto quarto ed il pesce.
Fin dal mattino tra palazzo Steri e la Kalsa sfrigola la meusa - la cui diffusione è di chiara origine ebraica - e si respira l’aroma dello sfincione e dei pezzi di rosticceria, mentre per chi ama la dolcezza senza compromessi potrebbe essere arduo scegliere tra iris fritte alla crema di ricotta, cassatine e cannoli.
Sonia Priulla
Passando vicino alle friggitorie, resta imprescindibile assaggiare panelle di ceci e crocchè di latte o patate, senza dimenticare le arancine. Anche l’Accademia della Crusca si è pronunciata sulla declinazione corrente del nome ed ha sancito che maschile e femminile possano coesistere, nel definire una preparazione che cambia completamente spostandosi da Sicilia orientale ad occidentale. Conici e preparati con riso condito al pomodoro gli arancini catanesi, tonde, speziate ed anche farcite alla besciamella le arancine palermitane.
Rossana Brancato
Il consumo di riso in Sicilia risale alla dominazione araba, veniva preparato in purezza o aromatizzato con zafferano e spezie, come accompagnamento alle portate principali, ospitandolo nel palmo della mano per farcirlo con gli intingoli. Proprio dall’esigenza di rendere questa preparazione più conservabile e trasportabile, si diffuse l’abitudine di sigillare la sfera di riso farcita con la frittura, così nacque l’arancina.
Frittola, mussu&carcagnola, stigghiole e mangia&bevi accontentano i carnivori che non si saziano solo di pane con la milza, ma non si può lasciare Palermo senza passare da Mondello, dove il polpo passa dalla pentola bollente alla degustazione estemporanea, sommandosi al caleidoscopio di ricci e frutti di mare.