Il cappelletto patrio, racconto di un Natale del 1970

L'eredità orale di una famiglia, una ricetta in dialetto a mezza bocca, una sfoglia eterna da guardare in controluce.

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“Se riesci a intravedere la luce attraversare la sfoglia gialla, allora vuol dire che sei sulla buona strada.”

Il cappelletto in Romagna ha forma e natura peculiari. Ricorda la sezione aurea, una delle costanti matematiche più antiche che esistano. La successione creata da Fibonacci è composta da numeri dove ogni elemento è dato dalla somma dei due che lo precedono. Io, mia madre, mia nonna; il cappelletto, il ripieno, la sfoglia. Tutto torna. Tutte le cose più buone e sante hanno una forma arrotondata, capace di contenere qualcosa, accogliere qualcuno, irradiare calore e sapore tutto intorno.

Esistono cappelletti per i giorni di grasso e cappelletti di magro, ma soprattutto esistono mani per chiuderli e bocche per raccontarli. Scordiamoci la ricetta regionale, quella che costringe il cappelletto a chiamarsi romagnolo, una definizione coatta, una semplificazione sterile. Parliamo piuttosto del cappelletto alla maniera di un luogo circoscritto, quello che va dalla cucina ampia di mia nonna alla vigna di mio nonno, in provincia di Cervia, in un preciso momento: il giorno di Natale del 1970. Ogni riferimento a persone e cose non è per nulla casuale, tutto passa passa attraverso l’oralità: la ricetta tramandatami da mia madre, il gusto familiare, la storia. La mancanza di “regolamentazione” del compenso, ciò che è contenuto entro i lembi della porzione di pasta all’uovo, rende tutto più eccitante. Quel giorno, in particolare, il cappone del cortile era particolarmente grasso (la discriminante per un ripieno e un brodo più o meno saturo), forse per il boom economico che aveva portato ricchezza in famiglia e che si traduceva in abbondanza straripante, a tavola.

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L'esercito felice dei cappelletti di cappone a Natale, preparati dalla mamma di Caterina

Sveglia all’alba, cucina economica sempre accesa, acqua a ribollire lenta nella pentola di ghisa smaltata, mattarello lungo, tagliere di legno chilometrico, grembiule bianco e manicotti immacolati: il basic kit della “azdora pro”. La pasta tirata, rigorosamente sottile, è elastica ed è facile arrotolarla, in parte, sul mattarello per scorgere eventuali difetti, discromie e assicurarsi che, accarezzandola con la mano, si possa intravedere la luce che si irradia attraverso la superficie dorata. Così illuminata sembra un lenzuolo di seta. La regola dice che per ogni 100 grammi di farina di grano tenero ci voglia un uovo intero, e nessuno in famiglia si è mai sentito di dissentire, soprattutto in fatto di pasta fresca.

Tutte le cose più buone e sante hanno una forma arrotondata, capace di contenere qualcosa, accogliere qualcuno, irradiare calore e sapore tutto intorno.

Bisogna essere lesti e svegli per evitare che le sfoglie si secchino e perdano elasticità, pertanto il ripieno è più simile a un flusso di coscienza che a una addizione di prodotti del territorio: casatella (formaggio a pasta semi mollo simile allo squacquerone), parmigiano, uovo, noce moscata, petto di cappone bollito battuto a coltello.

Il parto del cappelletto avviene velocemente, tutti assistono, alcuni hanno mani e occhi impegnati a riempire i rettangoli di pasta con la mistura profumata, altri semplicemente si assicurano di controllare la buona riuscita del rituale. Momento ludico per eccellenza e rito di passaggio per i più piccoli, la cui sacralità è aumentata dal suono del brodo che ribolle in background. Il dado è tratto (non quello da brodo, non sia mai), la magia del Natale sta nelle cose che scaldano la pancia e riempiono di storie nuove la cucina.

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Altra tradizione di Natale, la piadina romagnola fatta in casa

Seconda regola fissa del club: il brodo deve essere di solo cappone. La gallina (vecchia) è un’ alternativa accettabile, non la si disdegna, ma nemmeno la si caldeggia, per il giorno di Natale. Lasciar bollire il brodo per ore e ore il giorno prima del pranzo è la norma, non lasciarlo riposare tutta la notte sarebbe un affronto. Un brodo che assomiglia a una volta celeste, con alcune stelline di grasso saporoso in sospensione, a ricordare che il Natale è un giorno importante, che riecheggia nella galassia di tutti i giorni importanti dell’anno. Tovaglia e servizio delle feste, Sangiovese nuovo nei calici e piadina calda nei cestini di vimini. “L’è bon bon, Paola” (è buono buono) dice Nonno Terzo a Nonna Paola. “Mo l’è propri bon” (ma è proprio super buono).

(Tutte le foto di Caterina Lo Casto)

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