Cosa mangiano i turisti?

L’alimentazione turistica è un intruglio di diffidenza e imposizioni, che si rincorrono sin dalle colonizzazioni. Da quando viaggiare in un luogo era prenderlo e farcirlo di cose improprie, che stonavano con l’ambiente.

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La mattina nell’aria c’è quell’odore caldo della padella sul fuoco. Si dilata e fluttua tra le foglie degli alberi. Dalla cucina, la piccola cucina familiare che serve anche gli avventori dell’hotel, esce un filo di fumo. Lo sfrigolio dell’olio. Il netto chop dei coltelli che aprono la frutta soda, liberandone la polpa arancione e gialla.

Frizza il suono della pastella di farina di riso e latte di cocco appena adagiata nel padellino e già pronta. Un cestino sottile che attende di essere riempito con un’altra misura di latte di cocco e farina di riso, questa bollita per quattro ore, almeno, perché si addensi. Appa, si chiamano, hoppers. Arrivano al nostro tavolo ancora tiepidi, il cuore morbido e un sapore dolciastro e pungente, che ricorda il formaggio animale. Al tavolo accanto arrivano piatti di gelatinose uova strapazzate, avocado toast, latte di vacca e zucchero per il caffè. Osservo il passaggio dei piatti, la luce grassa che cola sulle uova dall’aspetto bituminoso.

Due ragazzi chiedono pepe, sale e la password del Wi-Fi.

E “zucchero please” perché il dolcificante di palma srilankese, il khitul, non è così familiare.

Con la bocca piena di appa origlio i loro piani: gita a Pigeon Island oggi, whale safari domani. Dall’albergo diffuso alla spiaggia, non manchiamo di incontrare altri occidentali, chi in vacanza, chi alla ricerca di sé stesso, chi all’opera e chi affascinato da una foto perfetta. Si rincorrono senza vedersi, su sentieri ben definiti, attraversati da tutto ciò che può andar bene per loro. Soprattutto per il loro palato.

La sera, questa sclerosi di spazi, si nota di più. é il momento in cui i banchetti di legno o metallo smettono di essere investiti dal sole e vengono imbiancati da uno strato di ghiaccio tritato. Sopra, vengono disposti uno ad uno pesci morti, appena scaricati dalle barche, aragoste, gamberoni, qualche granchio. Gli espositori sono appena inclinati. Il ghiaccio si riduce, diventa acqua, e scola da una frattura a lato. Un filo di sangue diluito che defluisce dalle vaschette in un catino sottostante. I turisti passano, osservano, toccano, scelgono.

Pesce grigliato, pesce fritto, pesce al sale. Patatine fritte. Qualche audace le mangia accanto ad un fried rice. In Italia, attraversare i paesi di mare porta più o meno allo stesso esito. Pesce, freschissimo mi raccomando, con patatine fritte, sminuzzato nella pasta, fritto. Audaci, certo, ma non troppo.

7.801 km di distanza, eppure, si punta allo stesso cibo. E lo stesso vale per la costa Thailandese, per isole Indonesiane, per i villaggi di mare in Costa Rica o per Sharm El Sheik. Dalla Costa Azzurra a Miami, il turismo occidentale vuole un menù prestabilito, quasi come se, nonostante i viaggi e i chilometri percorsi, sotto sotto, non volesse davvero spostarsi. Non solo pesce, ma anche pizza e quella diabolica pasta all’Alfredo che italiana non è, bacon, omelette, possibilmente con una spolveratina di formaggio animale.

Smoothie bowls senza soluzione di continuità, la traccia gelida di una globalizzazione culinaria ricoperta di fettine sottili di banana e fiocchi d’avena sparsi in linee drittissime, in palette. Che si abbini bene, per cortesia. Un matcha latte per accompagnare, un bel gelato per finire. Con buona pace del pluralismo alimentare.

Quello diventa un'esperienza, a pagamento e con misura. Un evento particolare e non più la norma quotidiana. Si fanno corsi di cucina locale, entrando nelle case delle comunità senza chiedere “permesso” ma con la spinta irresistibile dei soldi.

Si trita il coconut sambol, ma poi non lo si mangia - troppo piccante - meglio aspettare di tornare in hotel, in resort, e consumare un più timido piatto di pasta alla bolognese, altra grande stramba traduzione estera.

In Italia, si assaggiano le brioche, in Francia i pain au chocolat, ma li si accompagna con buffet di pancetta o würstel. Con la differenza che l'Italia, come la Francia o l’Europa intera, non sa che vuol dire ritrovarsi con un dominio estero che impone tutto, dalle colture alle scelte alimentari. Al contrario, sanno benissimo cosa vuol dire esercitarlo proprio perché parte da loro.

L’alimentazione turistica è un intruglio di diffidenza e imposizioni, che si rincorrono sin dalle colonizzazioni. Da quando viaggiare in un luogo era prenderlo e farcirlo di cose improprie, che stonavano con l’ambiente. Il caffè là dove non si coltivava, prendendolo dalla penisola Araba e schiaffandolo qua e là per coltivare di più e berlo sul posto. Un taglia e cuci di cibo considerato migliore, superiore per qualità e dignità, che ha cercato di soppiantare il cibo locale sempre considerato meno. Meno buono, meno ricco, meno importante. E con lui, le abitudini che lo circondano.

In Sri Lanka, ad esempio, è facile capire di non essere in un esercizio attraversato dal turismo, basta non trovare traccia di posate. Si mangia con le mani, anzi, con una mano.

E vien da chiedersi se anche questa non sia un'invasione, un ingresso non troppo autorizzato in uno spazio che ancora si scherma dal turismo da pesce, hamburger e cucchiai.

Ad ogni richiesta c’è una cultura che si stringe, che viene compressa a poco a poco. Fa spazio ai soldi, al denaro fluidissimo del turismo, così rapido da trasformare un’economia. Da renderla subito dipendente da un settore volatile, intasato di investimenti Occidentali. Con lei, si chiudono in casa le abitudini e le ricette. Vanno in uno spazio intimo. Ma il peso della richiesta, si vede a occhio nudo.

In Sri Lanka il pesce sta sugli essiccatoi, lunghi e legnosi, disposti seguendo il saliscendi di spiagge non lambite da onde da surf. I turisti però, amano quello considerato fresco, - ucciso e servito nell’arco di poche ore- L’altro lo sentono salato e gommoso tra i denti. E quindi, spostano l’asticella un po’ più in là, meno tradizione, sempre meno tradizione. Ma non basta. I turisti sono tanti, affamatissimi dopo la giornata in spiaggia o sulle tavole. Perciò serve più pesce. Pescare, pescare di più. E gli avocado, più avocado. E le uova, servono più galline, più allevamenti. E la carne, più vacche e più maiali. Carne sacra e carne proibita, nel piatto del turista sono solo bistecca o bacon. Carne di soggetti, improvvisamente cose. L’ambiente, corroso dalla domanda, sta in quel piatto, come colazione continentale. Di quale continente? Di quello che si mette al centro, che si convince di contare sempre un po’ di più.

La notte il mare è un filo di perle baluginanti, che oscillano con le onde. Pescherecci. Pronti a dare anche domani quello che i turisti chiedono. Perché c’è chi non può permettersi di pensare alla salute ambientale o alla cura della tradizione, quando ci sono i 300 euro mensili da guadagnare. Quando coltivare diventa impossibile, quando il prezzo del cocco aumenta, quando gli elefanti gonfi di fame saccheggiano i frutteti uscendo da foreste sempre più sterili. La vita animale, la prima ed ultima ad essere barattata con un piatto di pasta al ragù o una pizza Margherita in riva al mare di Bali o Batticaloa.

Il turista chiede e mangia. Vuole e paga. Conoscere costa caro, costa abitudine. In vacanza, si vuole stare senza pensieri. Per nessuno e per niente. Nemmeno per il paese che crede di visitare, ma che invece modella, a sua immagine e gusto. Con la violenza del potere di acquisto. Con il silenzio del “mangia prega ama”, che è solo “spendi consuma e inghiotti”. Animali, persone, cultura e gesti. In uno stomaco senza fondo. Perché il turismo ha sempre fame.

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