Quella di Ievgen Klopotenko è la storia di chi passa in rapidissima successione dalla felicità di una vita fatta di successi, all’orrore della guerra, di chi vive il momento più buio della propria vita e del proprio paese, e ha scelto di restare.
La sua è la storia di uno chef, passato dal servire clienti al servire soldati; dalle cucine di Masterchef a quelle da mensa; da gestire 30 coperti con il meglio della materia prima, a gestirne 300 con quel che può; dai riflettori della tv ai bagliori assordanti delle bombe. Dagli oltre 700 mila followers su Instagram, al bunker in cui rifugiarsi se il precipitare delle cose lo richiederà.
Quella di Ievgen Klopotenko è la storia di chi passa in rapidissima successione dalla felicità di una vita fatta di successi, all’orrore della guerra, di chi vive il momento più buio della propria vita e del proprio paese, e ha scelto di restare e di resistere, aiutando come può, dando un nuovo senso alla sua professione, invocando con forza il sostegno da parte di tutti i ristoranti del mondo, al motto di “Bortsch, not war”, per far conoscere la cultura del suo paese immaginando un futuro fiero e libero. Perché anche una ricetta può diventare una bandiera da sventolare, ed anche un pezzo di stoffa produce un bagliore assordante, se la agitiamo tutti insieme.
24 febbraio 2022. Cosa ricorda di quel giorno?
L’inquietudine e la paura che si sentivano in quegli istanti è qualcosa che non dimenticherò mai: guardavo costantemente il cielo, cercavo notizie, pensavo a cosa fare in caso di bombardamenti, dove nasconderci. Si cercava di mantenere una calma apparente perché insieme a me c’erano i figli di mia sorella, e per quanto possibile si provava a nascondere all’innocenza dei bambini le brutture di cui l’umanità è capace.
Dove si trova ora? Come sta e come stanno i suoi ragazzi, i suoi cuochi e la sua famiglia?
Al momento mi trovo nella parte occidentale dell’Ucraina a Lviv. Non ho cambiato i miei piani rispetto al periodo precedente alla guerra. Volevo aprire un ristorante qui ed avevo un contratto pronto a partire. Come sappiamo, tutto ha preso una deriva diversa, ma ho comunque scelto di proseguire con il mio progetto. L’unico aspetto che è cambiato è che non ho avuto tempo e modo di rimettere a nuovo il locale, sono partito con quel che c’era, perché l’importante non era avere una sala bella ed una cucina immacolata, ma che fosse tutto funzionale. Oggi cuciniamo per tutti, per chiunque abbia bisogno di un pasto caldo. Offriamo due menu, uno per chi può permettersi di pagare ed uno gratuito. Così facendo riusciamo a mantenere i fuochi sempre accesi. L’altro ristorante, quello di Kiev è ancora aperto, proprio in questi giorni abbiamo festeggiato i tre anni di attività.
Che vuol dire vivere a Kiev, oggi?
Per certi versi sembra di essere ancora in pandemia. Non si sa cosa succederà domani, non sappiamo cosa fare, come muoverci, non possiamo pianificare nulla e siamo sempre all’erta. Non sappiamo persino che giorno sia. Spesso sdrammatizziamo e diciamo: “prova a chiedere se qualcuno sa che giorno è?”. Sappiamo solo quanti giorni sono passati dall’inizio del conflitto, quasi come un nuovo giorno zero, come se il nostro calendario fosse ripartito dal 24 febbraio 2022.
Ogni venti minuti controlliamo le news, tutti sappiamo ormai riconoscere i suoni degli invasori, l’arrivo di un aereo o di un elicottero, il sibilo di una bomba o il frastuono di un missile. Tutti ci sentiamo più uniti come popolo, ognuno vuole contribuire come può e stiamo sperimentando un nuovo senso di appartenenza alla nazione, proprio nel periodo più buio. Condividiamo il desiderio di sconfiggere l’invasore, di riprenderci il nostro Paese e ricostruire un futuro di libertà. Unione e legame sono le due parole che meglio descrivono ciò che ogni ucraino prova in questo momento.
Ha lanciato un appello ai cuochi di tutto il mondo. Ci spiega meglio di cosa si tratta?
Ho fatto parecchi appelli. In particolare uno, che ho chiamato “Bortsch, not war”, in cui ho chiesto agli chef di tutto il pianeta di proporre Il Bortsch nei loro ristoranti e raccogliere i fondi per aiutare i rifugiati o l’esercito. Ho scritto a centinaia di cuochi in ogni angolo del mondo grazie ai social e tanti di loro hanno accettato. In Georgia più di 50 ristoranti hanno sposato la causa; in Germania, ad Amburgo un amico ci supporta in maniera importante, soprattutto promuovendo in altre nazioni questo movimento. I nomi sono già tantissimi, e tra i più noti della gastronomia internazionale, come Dominque Crenn, Alain Passard e René Redzepi. Il supporto che stiamo ricevendo è grandissimo e inaspettato, la voce si allarga e siamo arrivati fino in Giappone. È un segno bellissimo, tutti hanno voglia di aiutare e di dimostrare che il cibo è vita, è unione, è umanità.
Ha trasformato il suo ristorante a Kiev in una mensa sulla linea del fronte. Perché?
Tutti lo abbiamo fatto! Sulla linea del fronte in prossimità di Kiev ci sono almeno 40 ristoranti che hanno convertito la loro attività in mensa. Nessuno si è sottratto dal mettere a disposizione la propria professionalità. In tempo di pace diamo da mangiare alle persone, in tempo di guerra ai soldati. Deve essere così, se fai parte di un popolo e di una nazione. Basta girare per le strade per accorgersi che tutti si danno una mano come possono. Prima di intraprendere questa strada ho parlato con i miei cuochi e nessuno di loro si è tirato indietro. Mi hanno risposto: “siamo diventati cuochi perché ci piace cucinare, lo vogliamo fare e lo faremo per il nostro esercito!”. Il mio ristorante inoltre ha un piano interrato che può essere usato per riposare o, in caso di attacco, anche come bunker, il che ci dà un grado di sicurezza, piccolo, ma importantissimo per lo spirito. D’altro canto, siamo tutti convinti che sia questa la strada de seguire per sconfiggere l’invasore russo.
Dove si trova la forza per combattere gli invasori? Come si sconfigge la paura?
Storicamente, negli ultimi trecento anni, siamo stati governati dalla Russia. Ne abbiamo sempre sentito la pressione, siamo stati controllati e manipolati a loro piacimento. Sono pochi i periodi di libertà in cui noi ucraini abbiamo potuto sviluppare il nostro paese. È per questo che il senso di odio è condiviso da tutta la nazione. Ed è per questo che c’è la fila per arruolarsi nell’esercito! Più di trentamila persone da tutta Europa hanno lasciato la lora vita e sono rientrate in patria per arruolarsi, tutte unite dallo stesso desiderio: liberarsi finalmente dopo secoli, dal controllo russo. È questo che dà forza a tutti. Il desiderio di un futuro finalmente nostro!
Cosa cucina? E per quante persone ogni giorno?
Un giorno arriva il riso, un altro un cereale, carne o verdure. Siamo in balia del mercato e viviamo molto delle donazioni che riceviamo. Ad esempio, qualche giorno fa una piccola azienda che si occupa di pesca in tutto il paese ci ha fornito cinquecento chili di pesce. Spesso provo a cucinare il Bortsch, che è una zuppa tipica ucraina a base di barbabietole, cavoli, aglio e aneto, servita con un cucchiaio di panna acida e pane di segale. Ma non sempre riusciamo, perché mancano gli ingredienti.
Bortsch… perché dovremmo cucinarla tutti, in ogni angolo del mondo?
Ci sono tre ragioni per cui questo piatto dovrebbe essere conosciuto in tutto il mondo. Il primo è che il Bortsch è una tradizione, parla di noi, del nostro passato, di quello che siamo. È come sventolare una bandiera, e tutti nel mondo dovrebbero conoscere questa ricetta e imparare a cucinarla. Sapere che in altri paesi si condivide la stessa cultura gastronomica ci fa sentire meno soli e ci dà la forza. La seconda ragione è che si potrebbe lanciare una campagna di sostegno e chiedere a tutti i ristoranti del mondo di inserire questo piatto in carta e di devolvere un contributo alla causa ucraina. Un piccolo gesto, che se moltiplicato per tutto il mondo farebbe risuonare la nostra cultura in maniera assordante. Il terzo motivo poi ha a che fare con l’evoluzione della cultura gastronomica a livello turistico; anche se sembra presto pensare alla fine della guerra, basta un pizzico di ottimismo e di buon senso per sapere che prima o poi finirà. E quando sarà finita, vogliamo che in ogni parte del mondo si sappia cosa si mangia in Ucraina e che ci sia la voglia di venire a visitare il paese ed assaggiare la nostra tradizione.
La sua era una cucina creativa. Come cambia il modo di far da mangiare quando lo chef va in guerra?
Il mio lavoro oggi è molto simile a quello delle mense scolastiche. Rispetto al modo di lavorare che ho sempre avuto, è cambiato tutto. Se prima pensavamo a piccole porzioni e a pochi coperti, oggi dobbiamo fare i conti con centinaia di piatti e con quantità che non si misurano più in grammi ma in chilogrammi. Ci ritroviamo a cucinare in luoghi insoliti, che non sono attrezzati per gestire queste quantità, ed affrontiamo i problemi più vari, come trovare il modo di preparare il purè con trecento patate. Questo nuovo modo di affrontare il lavoro però mi ha dato la possibilità di vedere il nostro mestiere sotto una luce completamente nuova. Oggi più che mai ho una consapevolezza piena del significato della mia professione. Cucinare per l’esercito ha dato un senso alle mie capacità, ci si sente utili, si pensa a cucinare e basta, senza guardare i costi, il budget, il food cost o la gestione delle risorse. Si pensa semplicemente al bene delle persone sedute alla nostra tavola, che sono lì per essere sfamate ma anche per vivere un momento di sollievo. Si cucina per i nostri soldati e quindi, per salvare il paese. Ricorderò questo nuovo corso della mia vita per sempre.
È uno dei cuochi che fa parte dell’Alleanza Slow Food. Che vuol dire nel concreto?
Entrare in Slow Food per me ha significato molto. Prima non avevo piena coscienza della cultura gastronomica del mio paese, ricercavo spesso all’estero ciò di cui avevo bisogno. Poi ho iniziato a studiare Slow Food, e mi sono fatto ispirare da ciò che succedeva in altri paesi. Ero affascinato dalla biodiversità delle altre culture e mi domandavo se la stessa varietà si potesse riscontrare anche in Ucraina. È bastato poco per accorgersi che tutto ciò che mi serviva era a un passo da me.
Ha vinto Masterchef, è un cuoco ma anche un volto televisivo, un influencer. Non ha paura di diventare un bersaglio?
Si. Questa cosa un po’ mi spaventa. Ho paura di essere un bersaglio, e questa è una delle ragioni per cui al momento non mi trovo a Kiev. I russi odiano le persone come me, che professano indipendenza e libertà e hanno un’influenza su una grande community. Se venissi catturato verrei sicuramente deportato in Siberia, lontano da tutto e azzittito con la forza.
“La guerra cambia la percezione del mondo, cambiano i valori”. Ha dichiarato in una recente intervista. Quali sono oggi i suoi valori e le sue priorità?
Già dopo il Covid l’ordine dei valori era radicalmente cambiato per quanto mi riguarda. Con l’avvento della guerra poi abbiamo subìto tutti un ulteriore sbalzo verso una nuova consapevolezza. Le priorità, oggi, sono diverse. Le uniche cose a cui si pensa dal mattino alla sera sono la propria famiglia, aiutare chi ci sta accanto e le informazioni sull’andamento della guerra. Non c’è più spazio per il superfluo, per i vestiti, per tutto ciò che identifichiamo con un’economia di consumo. Dal punto di vista dell’informazione devo dire che tutti i nostri canali funzionano molto bene, si ha quotidianamente un quadro completo di ciò che succede, si possono osservare i fatti quasi in tempo reale. Non avevo mai pesato in questi termini l’importanza dei media, fino a questo momento; non credevo che l’efficienza dell’informazione potesse rappresentare una, seppur piccola, àncora di salvezza. Avere coscienza di ciò che ci circonda è vitale in questo momento della nostra esistenza.
Le bombe continuano a cadere e il rumore degli aerei da guerra non cessa. Cosa vede nel suo futuro e in quello dell’Ucraina?
Innanzitutto, vedo una vittoria. Gli ucraini sono determinati, uniti e molto arrabbiati. E questa fermezza da parte del mio popolo potrebbe aprire a scenari completamente diversi da quelli che si possono immaginare, tanto che c’è chi ipotizza un ribaltamento della situazione e uno sconfinamento nella zona di Kuban, tra il fiume omonimo, il Mar Nero e la Crimea, in territorio russo. In passato ci sono sempre stati cittadini ucraini solidali con la politica russa, ma oggi quella bivalenza non esiste più e l’unione ha preso il sopravvento. E questo vale per i cittadini come per le aziende; tutte quelle di impronta filorussa abbandoneranno l’Ucraina. È su questi presupposti che costruiremo un nuovo paese, e lo faremo in tempi brevi, non appena la guerra sarà terminata, perché chiunque parteciperà attivamente alla riedificazione.
Siamo consapevoli del fatto che ci vorranno tre o quattro anni per tornare ai tempi prebellici, ma siamo altrettanto consapevoli che tanti paesi come noi hanno dovuto subire l’oppressione di un invasore e affrontare una guerra prima di diventare grandi nazioni. Di certo non dimenticheremo mai questo periodo e in futuro, quando dovremo prendere ogni sorta di decisione, penseremo a questo conflitto prima di decidere qualsiasi strategia. Ci piace pensare che la guerra sia un trampolino verso un nuovo e incredibile futuro. Un pensiero che ci ripetiamo come un mantra ogni giorno appena svegli ed ogni notte prima di addormentarci. Ringrazio tutti coloro che ci supportano. Ora, però, devo tronare in cucina.