Gabriele Eusebi: spontanea geografia vegetale

Un peregrinare gastronomico con un comune denominatore: le erbe spontanee, catalogate meticolosamente, trasformate in una geografia sensoriale e assolutamente personale.

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Spontaneo: “di fatti fisici o naturali, che avvengono senza l'intervento dell'uomo”. Ma anche “manifestazione istintiva difficilmente controllabile”. Questo è Gabriele Eusebi e il mondo in cui vive, quelle Marche che lui stesso definisce come “la contea” de Il Signore degli Anelli, fatta di morbide colline, gente laboriosa, tempi dettati dalla terra. È uno chef cresciuto professionalmente con grandi nomi della cucina marchigiana come Michele Biagiola e Moreno Cedroni, facendo tappa nella vicina Romagna da Piergiorgio Parini, volando fino al Mugaritz per poi tornare a Torino e affiancare Federico Zanasi fino alla stella Michelin presa al Condividere in un battito di ciglia.
Poi rientrare, in quelle Marche da cui si fugge appena possibile ma da cui si rincasa come si fa con gli amori riscoperti troppo tardi.

Un comune denominatore in questo peregrinare gastronomico: le erbe spontanee, catalogate meticolosamente, trasformate in una geografia sensoriale e assolutamente personale, custodite tra le pagine dei romanzi letti tra un servizio e l’altro, nei pomeriggi assolati e nelle notti in cui il sonno tardava ad arrivare per quell’adrenalina che la cucina lascia sottopelle ancora un po’.

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Con la fretta di dare i nomi alle cose nasce Selvario, 42 erbe in cerca di autori, come un rimando ai bestiari medievali e con la volontà di catalogare e definire le erbe spontanee attraverso 7 gruppi abbinati ad altrettanti autori. Ecco che allora, l’anice, prende le sembianze di Ernest Hemingway, nel suo esser figlio del Mediterraneo, dal carattere indomito che solo l’alcool permette di sciogliere e assecondare per poi renderlo Pastis, Ouzo, Mistrà. L’amaro, e con lui radicchio, indivia, carciofo, hanno la prepotenza di Wu Ming nella loro integra sincerità. Che la verità sappia di cicoria? L’aspro, quel sapore che sa di giovinezza, fugace, spigoloso, viene fuori prepotente dai romanzi di Erri De Luca: una freschezza incerta che è naturale predisposizione dell’acetosella, del tagete, dell’erba cedrina. Di cosa sanno invece origano, alloro, shiso, salvia? Di incerto, di comfort che si scompone, di entropia e Murakami è senza dubbio il portabandiera sopraffino di un mondo fatto di dolcezza e crudeltà. E il dolce? Calvino. Il piccante? Baricco. Ma il perché ve lo lasciamo scoprire da soli, intrufolando il naso tra le pagine e respirandone latte materno e sambuco, erotismo e aglio orsino.

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Come nasce la necessità di raccogliere erbe?

Ho iniziato a raccogliere erbe con mia madre, a casa in inverno. Era qualcosa di sporadico, occasionale. La raccolta professionale è arrivata anni dopo con Michele Biagiola quando era a Le Case a Macerata; aveva degli orti ma si facevano anche uscite mirate, ogni due o tre giorni, per raccogliere ulteriori erbe destinate al menù. Da lì ho iniziato ad avere quella propensione più spasmodica per la parte vegetale e selvatica di un piatto. Di conseguenza ho cercato di scegliere tutti gli altri ristoranti in cui sono andato a lavorare per il loro approccio al mondo vegetale e soprattutto di inclusione delle erbe selvatiche nel menù. Dodici anni dopo credo che questa tematica sia diventato abbastanza altisonante. Magari non se ne parla con abbastanza cura, ma almeno se ne parla di più di dodici anni fa.

Da cosa deriva la necessità di catalogare le erbe?

È una necessità nata sotto lockdown, quando mi sono ritrovato tra le mani un tempo che non sapevo di avere e non potevo cucinare; volevo sistematizzare tutto quello che sapevo, sistemare gli erbari che avevo fatto e catalogandoli ho iniziato a pensare una struttura, una colonna vertebrale ai miei pensieri, sotto forma di libro dando loro un luogo non solo per sapore ma anche per il sentire di quella pianta. Ho iniziato a inventariare per gusto e per autori.

Come nasce il Selvario?

Il Selvario nasce proprio con il desiderio di tirar fuori tutte le cose che mi rappresentano: la letteratura, le erbe, la cucina. C’è una commistione di tutte queste cose che sono diventate un prodotto artigianalissimo che parla delle esperienze e le passioni che mi raccontano. È stato un esercizio che mi ha permesso di tirare fuori tutto di me in un periodo buio quale la pandemia.

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Perché l’idea di affidare le erbe ai libri?

È stato un gesto naturale; mano a mano che andavo in giro per i vari ristoranti, imparavo a cucinare, raccoglievo erbe, mi portavo dietro un numero importante di libri. In cucina il tempo era sempre poco, socialità compresa, quindi intanto che crescevo con le erbe crescevo anche con le storie che leggevo nei libri. È stato istintivo accostare alcuni libri alle erbe e ai loro sentori: una sensazione per ogni autore che, quelle sensazioni, le trasmette senza esitazione. Se penso al salato mi viene in mente subito Camilleri, questo sentore molto vecchio, aspro, di conservazione. Poi Calvino per il dolce, Baricco per il piccante e la sua propensione a situazioni particolari e legate all’erotismo e ai sentimenti. È stato davvero “spontaneo”, passandomi il termine, unire lettere e erbe.

Quali sono le erbe del momento?

Sono quelle che nascono allo sbocciare della stagione e rappresentano con entusiasmo le primizie: primule, violette, aglio orsino, alliaria che sbocciano insieme ai primi asparagi selvatici; questi ultimi due sono quelli che più di tutti simboleggiano l’arrivo della primavera. Poi stridoli e menta selvatica che ora come ora prolifica al suo massimo splendore, ma anche l’artemisia di cui sono piene le scarpate.

Cosa ti hanno insegnato gli chef con cui hai lavorato?

Ognuno di loro mi ha insegnato una cosa differente, che mi ha reso il professionista che sono oggi. Sono quelli con cui volevo lavorare per il loro approccio chiaro al mondo vegetale: intanto l’ardore per questo mestiere, assorbito come per osmosi; Michele Biagiola mi ha regalato l’amore per le erbe, Piergiorgio Parini buona parte di quello che so sulla cucina e sugli abbinamenti di sapore, Federico Zanasi mi ha insegnato a far confluire tutte le varie passioni in un unico luogo, il lavoro, e Moreno Cedroni mi ha fatto ragionare sulla precisione in cucina, che è imprescindibile.

Che ruolo hanno le erbe nel panorama gastronomico?

Attualmente sono piacevolmente presenti; è un bene perché se ne parli molto. Al contempo molte volte vengono scelte “come decorazione” ed è un peccato, mi rattrista perché vengono usate per uno scopo limitante mentre meritano un ruolo di caratterizzazione. Scegliendo con cura le erbe selvatiche con cui lavorare riescono da sole a raccontare una storia dall’inizio alla fine, regalando profondità e risalto alla portata come protagonisti principali. Sono versatili e il loro utilizzo è pressoché infinito.

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Erbe e sostenibilità. Moda o etica cosciente?

Le erbe e la sostenibilità sono saltate all’occhio negli ultimi anni, a maggior ragione dopo l’ultimo periodo che ha messo un vero e proprio faro su questo argomento. Penso, ad esempio, alla Michelin e alla nuova stella verde che viene assegnata. Diciamo che sono diventati un discorso molto presente ma rischiano sempre di trasformarsi in moda, con un uso improprio alle volte. Il mondo delle erbe è un terreno che richiede una conoscenza profonda e specifica, da affrontare con impegno e premura. Ben venga la curiosità ma poi subentri lo studio e un concetto interiore, una filosofia di cucina.

Si può parlare di sostenibilità nel panorama del foraging?

Quando si parla di vegetali li si abbina spesso alla sostenibilità ma è un’arma a doppio taglio che rischia di peccare di ipocrisia. La sostenibilità nelle cucine stellate è minima, poco sostenibile se non c’è davvero, alla base, la volontà di esserlo. Nel mondo delle erbe è un gran passo in avanti ma non bisogna dimenticare che se tutti facessimo foraging diventerebbe insostenibile anche con le migliori intenzioni. Ci deve essere sempre la cultura, la conoscenza delle varie forme vegetali nelle diverse espressioni. Quindi la sostenibilità intesa nel panorama verde richiede la raccolta consapevole di ciò che abbiamo davanti e il loro utilizzo successivo. Perché c’è sempre qualcosa di più sostenibile di un altro.

Che piatto ci hai preparato oggi?

Si chiama “Vagli a spiegare che è primavera” ed è un ricordo del pane che mi faceva mia madre da bambino, con aceto e menta selvatica. In questo caso è una versione dolce che assomiglia a un pain perdu, passato al burro con un po’ di zucchero, accompagnato da una crema all’aceto di violette, violette ed erbe selvatiche appena raccolte.

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