“La grande abbuffata” è un “sentimento” vecchio come il mondo, e gli all you can eat sono sempre esistiti.
Mangia, bevi, ozia, ripeti. Nell’immaginario collettivo, da sempre, mangiare bene e all’infinito, senza effetti collaterali, è da considerarsi come lo “stargate” universale. Godere e nutrirsi è un binomio indissolubile, mangiare tanto “un goal” fondamentale, insito nel nostro retaggio culturale. Le catene di ristoranti che vendono menù all you can eat, a buon mercato, hanno sfondano una porta aperta, riempito un vuoto, ammobiliato mondi paralleli e immaginari in cui non si esce mai dalla fase orale (Freud ci perdoni), in cui il limite è solamente l’elasticità dello stomaco o la fantasia. Design minimale sì ma nutrizione minimal no. Perché? Se l’astrazione e la sottrazione in materia di arredamento e stile ha, da alcuni anni a questa parte, grande appeal, non si può dire che lo stesso concetto sia facilmente trasportabile anche in un mondo in cui la pancia è la bussola. Vero è che qualche passo avanti è stato fatto, e il “gusto magro”, il pensare in verde, si sono ritagliati uno spazio nelle nostre pause pranzo, a partire dagli anni 90, anche se tutt’ora dire “è tutto grasso che cola” ci fa ancora immaginare nuove frontiere del piacere. Abbondanza ed esagerazione riecheggiano nella testa, il rifiuto della “fame” è nel nostro DNA, le carestie e le rinunce passate hanno attraversato generazioni, lasciando un’impronta indelebile. Perché siamo rimasti intrappolati nel Paese di Cuccagna? Smetteremo mai di sognare il Bengodi? Distopia primordiale o utopia della tradizione?
Della terra della pigrizia e della gola, un luogo mitico immaginato di perdizione gastronomica, se ne ha già traccia scritta in una commedia di Ferecrate del periodo ellenistico (“I minatori” V sec A.C) in cui si racconta di un “girone dantesco” ante litteram senza contrappasso alcuno: le anime golose allietano la loro permanenza nell’aldilà dividendosi tra ozio e scorpacciate sovrumane. Fiumi di polenta in cui immergersi, pesci e carni arrosto che ne ricoprono le sponde e che attendendo solo di essere divorati. Un’idea di catering infernale in cui i cibi si impiattano da soli e dove non si fa per nulla caso allo spreco alimentare né alla salute: d’altronde non si può morire per il troppo cibo, se si è già morti. Il Medioevo, poi, ha fatto del mito del paese di Cuccagna o di Bengodi, come comincia a essere soprannominato questo luogo fantasy, una vera e propria ossessione. Proliferano cartine geografiche immaginate e miniature in cui personaggi strampalati riescono ad avere accesso alla città del gusto senza riuscire poi a ricordare come ne siano, purtroppo, usciti: sfortuna del principiante, diremmo. Boccaccio nel Decamerone ne indica il portale “in Berlinzone, terra dei Baschi, in una contrada che si chiama Bengodi”, mentre in un codice del Museo Correr a Venezia c’è “una descrittion del Paese di Cuccagna vicino a S.Daniel, città del Friuli, Stato della Repubblica Veneta”. Una cosa è certa, esistono delle costanti nelle diverse iconografie e racconti, e tutte rimandano a paesaggi vastissimi in cui i luoghi sono definiti da cibi ipercalorici e iperproteici, sesso sfrenato e giochi carnevaleschi. Le vigne vengono legate con le salsicce, i fiumi e i torrenti sono di buon vino d’annata e di acqua nemmeno l’ombra; dal cielo piovono oche arrosto e da ogni angolo del paese si avvista una montagna di formaggio (spesso parmigiano) che svetta, e dalla cui cima fumante vengono riversate tonnellate di ravioli cotti in brodo di cappone o gnocchi ricoperti di cacio e burro: da qui forse l’idea di mangiare con gli occhi, chissà. Non tanto lontano dal concetto di all you can eat a cui siamo abituati, in cui un rullo trasportatore catalizza la nostra attenzione, spedendoci montagne di cibo dalla grande cucina fin sotto agli occhi.
Il 1500 regala, poi, un’opera pittorica capace di disambiguare e fissare nelle nostre menti il grande paradosso del Paese di Cuccagna: in un periodo storico in cui il divario sociale ed economico è una grande voragine incolmabile, la fame e l’ingordigia sono impulsi trasversali, senza età, sesso o estrazione. Nel dipinto ad olio su tavola “Il Paese di Cuccagna” (Luilekkerland) di Bruegel il Vecchio, datato 1567, l’autore europeo remixa una serie di leggende nordiche e restituisce quello che viene considerata la “Cuccagna definitiva”, o per lo meno, quella che a noi diverte di più. Accanto a una capanna dal tetto fatto di focacce super farcite si staglia una grande forma di cacio e tre figure maschili in coma postprandiale: un militare, un contadino e un intellettuale si riposano sotto a un albero imbandito a tavola, dopo una lunga degustazione totalmente gratuita e senza regole né abbinamenti consigliati. Nella stessa scena un uomo si fa strada scavando con un cucchiaio dentro a un pudding bianco colossale; un laghetto di latte, un improbabile cactus di pane, un maialino già infilzato in precedenza simbolo della smodatezza, un’oca arrosto e un uovo alla coque quasi umanizzato che sgambetta, forse, in preda al panico. Il sottofondo moraleggiante dell’opera suona forte e chiaro, e con una certa voce satirica, Brueghel parla del peccato di gola e della atavica seduzione del cibo, alla quale nessuno è in grado di resistere e dell’abbondanza dello stesso, che è, da sempre e per sempre, mezzo di emancipazione sociale.
Nei giorni in cui il cibo è più che mai accessibile, ancora oggi, non possiamo smettere di definirci in base a ciò che ingeriamo: tanto o poco, locale o globale, sano o trash, all you can eat, gourmet, whatever. Mangiando creiamo il nostro mondo, e da questo non c’è scampo.