Non conosco un altro mestiere che leghi a sé e per così lungo tempo una materia tanto mutevole e ricca, con la quale il confronto non finisce mai.
“Voglio realizzare il Giardino delle anfore per far fermentare il vino a contatto con l’Universo. Il vino deve vivere con l’Universo, deve respirare con la luna e con il sole, per trasmettere a chi beve emozioni che altrimenti andrebbero perse”.
Località Lenzuolo Bianco, Oslavia, provincia di Gorizia. Qui il confine tra Italia e Slovenia si muove tra colline e vallate. Così ad ovest della frontiera c’è il ‘Collio’, a est il ‘Brda’, che significano entrambi collina. Questo paesaggio è identico da una parte all’altra ed è stato tagliato in due dalla Cortina di ferro che ha lasciato dietro di sé dolore e ancora dolore.
Il Giardino delle Anfore sarà la prossima frontiera di Josko Gravner.
Quando dici Gravner hai in mente un’immagine iconica, un’anforaia sotto terra con decine di recipienti caucasici, un sancta sanctorum di grande effetto: un processo di rinnovata osmosi naturale tra terra e uva, che rispetta pienamente eco-equilibri perché non richiede filtrazioni, chiarifiche, lieviti artificiali, enzimi o trucioli, ma solo un po’ di zolfo, che si usa da duemila anni.
La vita di Josko Gravner è stata attraversata da grandi cambiamenti, e quello del Giardino delle anfore sarà la frontiera più lontana dove Josko vuole spingersi, e cercare di attraversare.
Per chi non conosce questo contadino basterà sapere che forse lui, più di tutti, ha segnato la storia del mondo dell’enologia moderna.
Josko, agli esordi nel mondo del vino, con il fervore e l’ambizione tipici della sua giovane età, voleva fare il ragazzo moderno e senza pensarci due volte aveva venduto le enormi vecchie botti e le aveva sostituite con serbatoi di acciaio inossidabile termocondizionati e ogni altra diavoleria moderna che aveva potuto permettersi. Poi, una volta constatato che l’acciaio da solo non era sufficiente per creare vini complessi e pregiati e ne aveva provato “la loro indifferenza e la mancanza d’anima”, aveva anche investito in barrique di rovere francese nuove, una moda enologica che imperversava nell’Italia degli anni ’80. La produzione di Gravner, intanto, suscitava grande interesse, ed era sull’onda del successo: i suoi vini erano così richiesti da finire prestissimo, e veniva dichiarato ufficiosamente uno dei migliori produttori di vino bianco e rosso in Italia. Gravner sarebbe potuto rimanere Gravner.
Nel 1987 Josko vola in California e al suo rientro dice: “Ho imparato cosa non fare”. Trova vini tutti uguali, banali, massificati, e tutti troppo simili ai suoi. Disconosce i dogmi del vino fatto con il libretto delle istruzioni o giudicato da decadi fittizie di guide tutte uguali l’una dall’altra. Cerca l’acqua pulita: la troverà alla fonte. Invece di accontentarsi di questo straordinario successo, Gravner si sentiva come ad un punto morto. Quel giorno, Josko, incontra il buio, e non gli piace. Si ferma e torna indietro nel tempo, a quando non fare era l’unica sapienza. Cerca nel passato, risale il fiume fino alla fonte, dove l’acqua è pulita e i barbagli del sole sono abbaglianti. Il secondo viaggio lo fa nel Caucaso. Laggiù è nato il vino, ed è nato quando non si conosceva nulla ma si sapeva molto, cinquemila anni fa. L’uva appena spremuta tornava sotto terra, protetta, guardata ed educata dagli otri, che laggiù si chiamano kvevri: ancora terra, cotta alla fiamma. Laggiù l’abbraccio delle bucce durava a lungo, affinché nulla del frutto andasse perduto: ma con delicatezza e nel giusto tempo.
Josko trova una vecchia strada, che era la strada nuova. Basta vitigni internazionali, basta affinamenti in barrique, basta tecniche convenzionali e basta filtraggi. I vigneti vengono espiantati per lasciare il posto al bosco. Basta a Sauvignon, Pinot Grigio, Chardonnay, Riesling italico, Merlot e Cabernet Sauvignon. Josko sradica tutte le viti che aveva al confine tra Italia e Slovenia, di fronte alla casa dei nonni. Ora nessun controllo delle temperature, pratiche biodinamiche in campo, biodiversività nel vigneto con ripopolamento di microfauna e botaniche, uso esclusivo dello zolfo, nessuna diraspatrice, affinamento lento, infinito dal punto di vista commerciale, dodici mesi in anfora, da quattro anni in sù nelle botti e altrettanti in bottiglia. Il Bianco Breg 2012 è stata l’ultima annata, perché le uve con cui è stato fatto non esistono più. Le uve per il bianco saranno solo la Ribolla Gialla, lì da un millennio, come quella per il rosso solo Pignolo. Gli ci sono voluti trent’anni per capirlo: “Ho potuto chiedere scusa a mio padre troppo tardi. Non avevo capito quello che aveva cercato di insegnarmi. Non avevo capito”.
E allora ritorniamo qui sotto, nell’anforaia da dove siamo partiti con questo racconto. Qui sei disorientato, ammutolito, la sensazione è surreale. Qui si aprono voragini dalla terra, e sono le carnose bocche delle anfore georgiane dove fermenta il vino. Qui dentro la carne è attaccata alle bucce di Ribolla Gialla e Pignolo. La cantina sembra ferma, e visivamente vuota, perché tutto quello che si è solito vedere, come fusti di acciaio, rubinetti, vasche, pompe, non ci sono. Qui c’è solo il vino nuovo che fermenta e s’agita nella terra e questo movimento si rinnova di stagione in stagione.
L’anfora, il tempo, il non fare e ritornare all’essenziale, sono l’oggi e il domani di Josko. La conoscenza è il fondamento della serenità che consente di attendere la vendemmia all’ultimo giorno, e il vino per almeno sette anni.
Quale domani, si chiede l’uomo che ha visto tutto, che ha attraversato il cambiamento? Quale domani, si chiede l’uomo che ha cercato l’acqua pulita della fonte? Quale domani per chi volle, cercò e trovò, è ora il Giardino delle Anfore. Basta ascoltare i momenti di pausa, quando la voce diventa più morbida, per capire che il domani è già qui, accanto alla moglie Marja, alla figlia Mateja e al nipote Gregor, dove Josko ha abbandonato i vitigni internazionali per dedicarsi soltanto alla Ribolla Gialla: sarà il Giardino delle anfore.
Joško Gravner è veramente il padre del moderno movimento del vino ambrato/orange/macerato.
Il suo coraggioso e rivoluzionario rifiuto della vinificazione classica nel 1997 ha avuto un’enorme influenza non solo in Italia ma in tutto il mondo. I suoi viaggi in Georgia e la successiva adozione del Kvevri come contenitore ideale per la fermentazione hanno fatto riscoprire le antiche tradizioni vinicole di quella antica terra, ispirando un’intera generazione.
Ecco perché con Tuorlo siamo partiti da qui.
Forse a lui non piacerà essere definito così. Josko è un uomo risoluto, apparentemente senza sfumature. Ed è la testardaggine che lo ha portato ad essere profeta odiato in patria, venerato da chi gli è lontano, intimorito da chi gli si avvicina. Perché chi va lì, sa già chi è. Josko è un uomo libero. Libero da protocolli agricoli ed enologici, dalle mode, dall’eccesso di parole e dal quel machismo, tanto in voga ora, che non ammette mai uno sbaglio. Chiede scusa quando sbaglia, sempre.
Lui mi ha stretto forte la mano, io anche, e quel sorriso che ne è nato dopo ha spazzato via tutto quello che fino a quel momento si poteva pensare o fantasticare su di lui. Ho incontrato un uomo curioso e rispettoso. E la sua forza sta proprio nell’aver messo in discussione tutto, soprattutto se stesso.
Josko Pensiero
Non conosco un altro mestiere che leghi a sé e per così lungo tempo una materia tanto mutevole e ricca, con la quale il confronto non finisce mai.
Il vino prende forma e nasce nel vigneto. Il vino accade nella vigna. In una terra difficile, con la luce e il colore del sole. Con l’amore per la pianta che va rinnovato ogni giorno. Al momento dell’impianto, affidandolo solo ai terreni migliori. Poi, sapendo interpretare le sue necessità, contenendo la sua esuberanza: taglia, pota, lega, guarda, tocca. E’ un amore che la vigna ricambierà generosamente, assecondando il corso delle stagioni, per dare un frutto dolce e maturo. Il frutto ora è maturo, il contadino ha tolto il troppo e lasciato il meglio. Dopo l’estate la pianta non spreca più nulla, fa tesoro dei suoi frutti. La stagione, il tempo, i giorni buoni e i giorni bui scolorano i poggi e i declivi, mentre le muffe accarezzano gli acini sempre più dolci, sempre più scuri. Il frutto viene dalla terra e ritorna alla terra, racchiuso e protetto nell’ombra della terracotta. Le mani dell’uomo l’hanno solo sfiorato, e per breve tempo, lasciando in vigna, da dove sono venuti, gli acini perduti, e tenendo quelli glorificati dalle muffe nobili.
Il tempo è l’arnese più prezioso in cantina. Il mosto mormora, nei recinti sotto terra, con null’altro che l’abbraccio della terra e l’urto del bastone che lo rimesta: e se stai attento, quando il bastone scende a violare l’intimità del mosto nel profondo dell’anfora, il vino poi brontola a lungo. Inizialmente, come un amante insaziabile, chiede giorno e notte. Sei follature al giorno con un lungo bastone durante il periodo di macerazione nelle anfore e raccolta a mano della parte solida durante la svinatura. Poi gli incontri si diradano, fino a quando il vino è sazio: sono passati sei mesi, la fermentazione è terminata, il torchio è pronto. Finalmente resta solo l’essenza. Torna sotto terra, altri sei mesi.
Poi l’uomo ha solo il compito di verificare che, nei tini di legno, i lieviti propri dell’uva facciano il loro dovere. Poi, una volta riposto il vino nelle botti, deve limitarsi a sorvegliarlo, intervenendo il meno possibile. Senza filtrazione la affiderà infine alle bottiglie, almeno sette anni, dove dopo affronterà il suo viaggio verso il mondo.