La “giusta misura”, anatomia di una Diet Culture dura ad estinguersi
La Diet Culture è come un “video game Open World”. Quando decidi di accettare le regole del gioco ti si apre un mondo, ma le prospettive non sono per nulla allettanti.
Detossinarsi, ripulirsi, astenersi, digiunare, drenare: segui il consiglio, che ti fa stare bene! Nella lista, infinita, di verbi e tricks che rientrano nel grande insieme, il campo semantico della dieta dimagrante, per ritrovare la giusta taglia (e la felicità), la scelta ricade spesso sulla privazione da qualcosa (no carb), l’assunzione di sostituiti più adatti (meglio low fat), fino ad arrivare a una vita in cui il digiuno diventa il tuo migliore amico: se hai fame bevi, per esempio. La nostra cultura, e il retaggio cattolico-cristiano sono permeati di momenti dell’anno in cui il credente, in quanto umano, e peccatore originale, deve riscattarsi, come il Mercoledì delle Ceneri e il Venerdì Santo, in cui il cristiano, dovrebbe osservare il dettame “carnem levare”, secondo il quale non si mangia carne. In più, si osserva il digiuno, tutti i venerdì di Quaresima, e non sono concessi cibi costosi e ricercati. Questioni che riposano nella nostra mente collettiva. D’altronde tutta la storia parte da una mela, la mela del peccato, a cui Eva non ha resistito, e che Adamo (l’ingenuo), ha accettato dalla donna, genesi del tormento umano.
Donne e cibo, eterna tentazione?
Proprio alle donne la storia riserva le regole, sociali e igieniche, più dure. Il termine corsetto lo ritroviamo a partire dal 1300: prende origine dal francese antico e ha la stessa radice della parola corpo. Ecco da dove deriva il sinonimo busto, un capo a stretto contatto col corpo e col busto. Indossare il corpetto steccato ogni giorno era sinonimo di grazia, ma anche di lusso in certi ambienti, e di stato sociale. Più era stretto e strutturato, più la donna si assicurava di essere ben considerata, accettata, amata, desiderata. Un’opera di privazione e coercizione interessante, se si pensa che questo strozza lo stomaco proprio nel punto in cui si dilata quando accoglie il cibo, oltre a rendere difficile respirare, espandere la cassa toracica. Una moda, un oggetto di stile, una misura da seguire: la giusta misura. Nel ‘500 si proponevano addirittura di ferro, l’apoteosi dell’eleganza delle signore, ma anche un potente mezzo di costrizione psicologica, al punto che, per molti, era un feticcio del fascino femminile.
Voler rientrare in una taglia “ideale”, fatta eccezione per le questioni di salute, presuppone che ci sia errore di fondo, un giudizio, la presa di coscienza che ci debba essere qualcosa di sbagliato, e che ritrovare la giusta linea possa assicurare un posto privilegiato nel mondo. Essere in forma, essere come gli altri, rispondere prontamente a modelli estetici; ma anche annullare le diversità, omologare, controllare, le due facce di questo retaggio duro a morire, difficile da guardare in faccia, perché nascosto, strisciante, socialmente accettato.
L’informazione contemporanea, i professionisti del settore, ed alcune subculture che hanno recuperato terreno, puntano a rivendicare le forme delle donne (e degli uomini), oltre alla libertà di espandersi, di nutrirsi in modo equilibrato, lontano dai cibi punitivi, non costringendole entro limiti di espressione del sè, in controtendenza però con messaggi più sotterranei e liquidi, che parlano ancora di giorno libero dalla dieta, sgarro, peccato di gola, dolci senza peccato, ricette detox, piani alimentari eccezionali, da seguire per non sentirsi in colpa: controllare è meglio che lasciare andare.
Denutrizione e malnutrizione, sia in difetto che in eccesso, e ortoressia, l’attenzione abnorme per ciò che ingeriamo, non riguardano solo l’aspetto o lo star bene, ma anche il controllo, del pensiero e delle emozioni, e per questo sono strumenti affilati. Ripensare al proprio rapporto con il cibo e con i modelli culturali a cui aderiamo è un segno, un’impronta importante da lasciare per il presente e il futuro che vorremmo, senza gabbie dorate, falsi miti e finti diktat.