Marco Invernizzi ci rivela il valore di essere rispettosi della natura, e come applica questo principio al mondo del fine dining dalla sua esperienza di Bonsai Master.
Il mondo dei Bonsai è animato da un rispetto profondo della natura e della vita. In qualità di Bonsai Master, Marco Invernizzi ha imparato l’arte di creare rappresentazioni realistiche della natura sotto forma di bonsai, “gli alberi in miniatura”. Per lui, il piacere gastronomico è interconnesso con una mentalità di rispetto per la natura, mentalità che ha assunto da Bonsai Master. In quest’intervista condivide con noi i parallelismi tra questi due mondi.
Sei conosciuto come “global diner” e come “bonsai master”. Quale passione è iniziata per prima?
Ho iniziato coi i bonsai quando avevo quindici anni. Mi ricordo che stavo guardando la TV accanto a mia madre. Nel film “Karate Kid 3”, c’è una scena in cui il Sensei Miyagi spiega al suo alunno, Daniel-san, che il senso della vita può essere spiegato tramite la vita di un bonsai. E non so cosa sia successo ma, in quel momento, è come se mi fosse entrata una pallottola nel cervello e ho detto: “Questo è quello che voglio fare nella mia vita.”
Mi sono innamorato dei bonsai perché mi sono accorto che non è solo una forma d’arte, ma è un’arte che usa il tempo come uno strumento. Un bonsai artist usa quattro dimensioni: le tre dimensioni canoniche e il tempo. E ciò che amo della gastronomia è che anche gli chef adoperano quattro dimensioni: usano il tempo. Il tempo in cui va raccolto un ingrediente, il tempo di cottura, o quando esattamente servire un piatto che hanno realizzato: è molto importante, è essenziale.
Torniamo alla dimensione milanese, quando avevi quindici anni e ti sei innamorato dei bonsai: com’è iniziato il tuo percorso per diventare un bonsai master?
È iniziato come un hobby: mi sono iscritto ad un corso gestito da una persona che sarebbe diventata il mio bonsai master italiano. Ho studiato con lui per cinque anni: nel frattempo, ho finito la scuola superiore e mi sono iscritto all’accademia di design. Ho finito molto in fretta, ho fatto un corso di quattro anni in 3. Volevo finire il più presto possibile per avvicinarmi, anno dopo anno, sempre di più al mio sogno di trasferirmi in Giappone e studiare con i migliori bonsai master.
Appena mi sono laureato mi sono trasferito in Giappone e ho bussato alla porta di quest’uomo che era conosciuto come il Ferran Adrià dei bonsai. Anche se all’inizio era riluttante rispetto all’accettarmi, perché io sarei stato il suo primo alunno non giapponese, alla fine ce l’ho fatta e ho vissuto lì quattro anni della mia vita (dal 1997 al 2001). Dopo dieci anni di studio (anche se non ho mai davvero smesso di studiare), sono diventato un Master anche io e sono tornato in Europa a lavorare.
Avevi ventun’anni e non parlavi giapponese. Come ti sei approcciato al tuo insegnante?
Il mio bonsai master Italiano lo conosceva e gli scrisse una lettera in cui gli chiedeva di ricevermi.
Penso che in qualsiasi relazione umana, qualunque sia il tuo primo passo, sono i passi che fai dopo che contano davvero. È la stessa cosa coi bonsai: puoi iniziare creando alberi bellissimi, con un sacco di amore e passione, ma devi essere costante. E la stessa cosa succede in cucina. Non è importante quanto sia buono il tuo primo piatto, devi riuscire a mantenere lo stesso livello fino al dessert… e anche dopo.
Come sono stati i primi anni da studente dell’arte bonsai? Come ti sei adattato a questo nuovo modo di vivere?
C’è voluto molto tempo per adattarmici perché non c’è niente di più lontano di un vecchio maestro giapponese che lavora con un giovane Italiano, specialmente negli anni ’90!
Penso che il comune denominatore sia stata la passione. Avevo davvero tanta passione e lui era quasi come un dio per me! Quindi qualsiasi sforzo dovessi fare per impressionarlo e convincerlo, l’ho fatto. Per me, è stato più facile all’inizio che alla fine, perché alla fine avevo la responsabilità di un sacco di lavoro. Senza scuse. Il primo anno non sapevo niente, quindi facevo un sacco di errori e avevo il diritto di giustificarmi, ma alla fine non puoi più farlo…
Com’è la giornata tipica di uno studente dell’arte bonsai?
Arrivi sul posto alle 8 del mattino e inizi a pulire. Pulisci tutto e ci metti circa un’ora e mezza. Poi arriva il master al giardino e ti dice il compito del giorno, a meno che non te l’abbia detta il giorno prima. Ogni cosa dev’essere fatta il più velocemente possibile. Non c’è spazio per fare errori perché gli alberi sono vivi. Ogni albero è estremamente importante e il master lavora anche ad alberi che appartengono ad altri master o clienti.
Lavori tutto il giorno fino a mezzogiorno, poi un’ora di pausa, lavori dalle 13:00 alle 19:00 e qui il trucco: hai un’altra pausa e poi alle 20:30, torni in giardino e lavori fino alle 23:00-00.00.
Lo fai ogni giorno, per almeno 30 giorni al mese; forse, se sei fortunato, riesci ad avere un giorno libero al mese.
Non è che bisogna lavorare a tavoletta ogni singolo minuto, ma devi essere sempre lì. Devi metterci impegno. Prenderti cura di una creatura vivente richiede la tua completa attenzione, tutto il tempo. Il mio master voleva che noi fossimo lì il più a lungo possibile: non avevamo un’altra vita all’in fuori di quello.
Praticamente come uno chef, giusto?
Sì, ci sono un sacco di cose che abbiamo in comune!
È molto importante imparare, trovare un ritmo. Qualsiasi impegno tu prenda verso la tua forma d’arte, sarà un impegno di lungo termine e sei lì per la vita. E il master, inoltre, non ti insegnerà mai. Sei tu che devi imparare, devi rubare con gli occhi, con la passione, con la sensibilità. Qualsiasi tecnica a cui assisti, devi essere pronto a impararla. Molto spesso devi pensare prima del tuo master: sai che, in qualsiasi momento, avrai bisogno di quello strumento o dovrai sapere come fare quella cosa. Devi avere tutto pronto per servirlo.
Un bonsai master non viene chiamato Sensei, viene chiamato Oyakata. Oyakata significa “Colui che ti porta sulle spalle”. Si prende la responsabilità di far diventare te, in primis, un uomo o una donna, e poi in secundis un bonsai master. A meno che non riesca a farti diventare una brava persona, non sarà capace di farti diventare un buon bonsai master. È così che funziona.
Chi è che ti dà lo status di Bonsai Master?
La community.
Sono l’unica persona non Giapponese a essere parte della Japanese Bonsai Professional Association, ed è stato molto difficile entrarci.
Ovviamente devi metterti alla prova, non solo in Italia, ma in tutto il mondo, particolarmente in Giappone. Ho lavorato con moltissimi bonsai master giapponesi negli ultimi vent’anni e loro sanno che tipo di lavoro faccio. Ho costruito delle relazioni con molti di loro, comprato alberi e performato davanti a loro. Alcuni di questi master viaggiano in tutto il mondo e riconoscono il mio lavoro, o visitano le collezioni dei miei clienti. Gli alberi che ho creato hanno vinto un sacco di premi e anche questo è un modo di essere riconosciuti.
Il tuo sogno era di diventare un bonsai master. Qual è il tuo sogno adesso?
Da una parte, è importante continuare il lavoro che ho fatto per i miei clienti. Gli alberi possono sempre peggiorare, quindi è molto importante tenere vivi e curare gli alberi. Allo stesso tempo, sto cercando di far uscire i bonsai fuori dalla loro dimensione stretta.
Ed è per questo che sono sempre intrigato quando qualcuno che viene da un altro ambito - che sia gastronomia, film, qualsiasi forma d’arte. Adesso che mi sono affermato come bonsai master e sono conosciuto in tutto il mondo, voglio spingermi un po’ oltre. Voglio rendere ancora più persone partecipi di quest’arte.
Adesso parliamo della tua altra passione, la gastronomia. Com’è nata?
Più di 10 anni fa stavo parlando con un amico messicano e lui mi disse che suo padre, un uomo con un occhio molto lungo, gli disse un giorno: ci trasferiremo a Parigi, dovete imparare come mangiare.
Dunque fece trasferire tutta la sua famiglia e la sua intera azienda per un anno intero. E solo quando i bambini erano lì e hanno iniziato a mangiare si sono accorti di cosa stava parlando. E quindi ho pensato, sai cosa: ho viaggiato in tutto il mondo e ho mangiato in un sacco di ristoranti ma non mi sono mai curato di pensare cosa stessi mangiando e cosa stava accadendo intorno a me.
Un giorno ho seguito il consiglio di un mio amico che ha chiamato Parigi “la città in cui impari come mangiare”, e quindi lì ho iniziato, dai ristoranti più bassi come i bistro fino ai ristoranti d’alta cucina.
Ero spesso da solo. Quando visito un posto nuovo, cerco sempre di informarmi prima sul ristorante. Sono molto curioso e ammiro gli chef e la gente che lavora in un ristorante, non ho mai esitato a parlare con loro e a fare domande.
In particolare, ero attratto dalle stoviglie usate nei ristoranti d’alta cucina, perché avevano molto in comune con i vasi usati per i bonsai.
Sono diventato gradualmente parte della community, ho iniziato a viaggiare di più, ritornare in luoghi precisi e diventare un ospite ricorrente. Più di tutto, stavo sviluppando un palato. È come un muscolo, più mangi più definisci il tuo palato e così impari.
È incredibile vedere come questa fame di imparare cresce sempre di più ogni giorno. Posso andare in 150 ristoranti all’anno, ma ho ancora le farfalle nello stomaco quando mi siedo e apro un menu, anche se prenoto un ristorante e leggo tutto a riguardo. A volte provare questa sensazione è un bene, perché ti fa avere un’idea di cosa ordinare; a volte è terribile perché tutte le tue aspettative potrebbero essere distrutte dalla realtà. E così sono entrato nella community, una community non molto grande, e la gente ha iniziato a chiedere la mia opinione su qualche ristorante e da lì sono arrivato a questo punto.
E poi hai iniziato a scrivere, di ristoranti!
Sì, a un certo punto della mia vita ho effettivamente scritto di ristoranti, perché non trovavo recensioni interessanti, tranne quelle della critica gastronomica Ruth Reichl, di cui ho letto tutti i suoi libri. La ragione per cui mi piace così tanto è che riesce a descrivere l’emozione di essere in un preciso ambiente e le interazioni con le persone, che ricordi le hanno lasciato, invece di descrivere gli ingredienti per i quali molte persone che leggono recensioni non hanno nessun interesse, e non replicherebbero mai la ricetta. Ruth Reichl era famosa perché le persone che leggevano le sue recensioni non erano persone che andavano in ristoranti d’alta cucina. È come qualcuno che ti racconta una storia. E quindi ho scritto qualche recensione, ma la mia interpretazione di quello che dovrebbe essere una buona recensione si è scontrata contro alcune riviste. E quindi me lo sono lasciato alle spalle, adesso sono concentrato sullo scambiare opinioni con le persone e sull’imparare.
Com’è visitare 150 ristoranti all’anno?
Beh, di sicuro ti cambia la vita, nel senso che ogni altra volta che mangi devi ricordarti che a un certo punto della settimana hai raggiunto il tetto massimo di calorie a tua disposizione, quindi ho iniziato a saltare molti pasti (cosa che si è rivelata funzionare), ma soprattutto penso sia estremamente importante allenare il muscolo del palato e tenerlo sempre in forma, all’inizio lo facevo andando ovunque, adesso leggo e mi preparo molto di più, quindi vado a mangiare in alcuni ristoranti in cui sono già stato solo quando capisco dai social media o dalle informazioni che riesco a raccogliere che lo chef ha cambiato drasticamente il menu o che un altro chef, per un motivo o per un altro, è sotto i riflettori, oppure vado proprio in ristoranti di nuova apertura.
Quindi è una missione, è quasi come se fosse diventato un lavoro.
Sì, ma la cosa bella è che ci sono sempre più persone coinvolte nella gastronomia, quindi adesso sono il tipo di persona che prenota per gruppi grandi, porto con me amici, sono come un presentatore e mi piace, così magari le stesse persone torneranno al ristorante da sole.
Molti chef sono diventati tuoi clienti. Com’è successo?
Non succede tutti i giorni di incontrare un bonsai master. Quando mi chiedono cosa faccio, rispondo “Sono un bonsai master”. A quel punto, invece che chiedere io domande a loro, avviene totalmente il contrario. Poi a un certo punto mi dicono: “Voglio un bonsai!” E io rispondo: “Ok! Dimmi di te, dimmi cosa ti piace, dimmi dove lo vuoi mettere, dimmi perché lo vuoi.”
E poi ci sono persone che vogliono un bonsai più piccolo, altre che ne vogliono uno più grande.
Quali chef hanno voluto un bonsai più grande?
Mimmo di Costanzo del Danì Maison ad Ischia, che è un ristorante grandioso, ha un giardino che è a metà tra Alice nel Paese delle meraviglie e un giardino giapponese, ha un meraviglioso olivo bonsai. E adesso per la nascita della figlia mi ha chiesto un altro olivo bonsai per festeggiare.
Poi ho creato un albero, che è proprio qui, che è chiamato Mugo Norbert perché è un pino mugo che ho creato pensando a Norbert Niederkofler, una persona che ammiro tantissimo. È stato pubblicato in molte riviste in tutto il mondo. L’albero è qui ma in realtà è suo.
Di recente ho parlato con Davide Oldani, lui ha un grosso olmo di fronte al ristorante e stiamo provando a potarlo e renderlo un po’ più bonsai.
Cerco di aiutare questi chef a portare a compimento la loro visione.
C’è qualcosa come uno “stile” da bonsai master, qualcosa che certifica che un determinato albero appartiene a te?
Credo che la scuola a cui appartengo sia abbastanza riconoscibile, ma alla fine quando guardi un albero vuoi che la mano del bonsai master si perda, vuoi semplicemente essere rapito dalla bellezza dell’albero e non vuoi davvero vedere lo stile di una persona, perché l’obiettivo ultimo dell’arte bonsai è creare un albero che ricordi quelli antichi.
Quindi non c’è spazio per l’egocentrismo.
Ce n’è molto invece, ogni volta che qualcuno mette impegno e anima nella sua arte, ma penso che sia più facile nell'alta cucina mettere la tua “firma” su un piatto. Ci sono molti piatti che puoi riconoscere non solo dagli ingredienti, ma anche dall'impiattamento, dai dettagli. Per esempio Dabiz a Diverxo o Eneko all’Azurmendi, guardi una foto del menu e lo riconosci subito. Ma nell’arte del bonsai è diverso, non posso usare parte di un arancio in un pino solo perché voglio che mi riconoscano, sarebbe troppo.
Dalla tua esperienza di global diner, puoi condividere con noi alcuni trucchetti su come entrare nei ristoranti più esclusivi? Oppure, suggerimenti su come visitare così tanti ristoranti, un po’ di consigli sul mondo della gastronomia.
Ciò che importa davvero è questo: quando qualcuno vuole imparare di più sulla gastronomia, si deve semplicemente impegnare. Non importano le finanze, non importa dove vivano, l’idea è dirsi: Ok, ho questo budget a settimana o al mese.
Non ci sono scusanti per arrivare in un ristorante senza sapere nulla a riguardo, quindi la prima cosa da fare è aprire la guida Michelin online e partire dal basso, col migliore bistro o il migliore ristorante a una stella, e leggere tutto quello che c’è da sapere su ogni ristorante, cercando di capire quale ci si addice di più.
Quando arrivi lì e dimostri che ti sei informato e che “hai fatto i compiti” e che ti ha portato lì il cuore, un sacco di chef, se per esempio chiedi un piatto extra, probabilmente te lo daranno gratis. Anche se non bevi vino, o se hai preso solo due bicchieri di un vino costoso, saranno felici di cucinare per te e renderti felice.
Quando si avvicinano al tavolo, devi essere estremamente educato. Una cosa che io faccio sempre è, quando uno chef si avvicina al mio tavolo, è alzarmi in piedi, perché sono a casa loro. Devi essere estremamente gentile, guardarli negli occhi, presentarti, rendere la loro vita il più facile possibile, questo è estremamente importante.
È per questo che consiglio sempre di andare da soli, così loro sono concentrati su di te e tu puoi concentrarti su loro e sul cibo.
Alla fine di un pasto, invece, quando hai apprezzato un piatto davvero tanto, fallo sapere! Il più delle volte comunicheranno le tue percezioni e la tua gratitudine allo chef. Sono stato in cucine in cui questo tipo di commenti sono stati accolti con grande gioia!
E se il piatto non è buono?
Solo se il piatto era proprio immangiabile, bisogna dire: “c’è qualcosa che non va con quest’ingrediente, potrebbe essere un mio errore, ma potreste controllarlo? Se mi sbaglio sarò ben felice di pagare un piatto extra, se ho ragione gradirei me lo preparaste di nuovo”. E molte volte vado al ristorante e dico “Questo piatto non lo capisco!”. Ma magari sono io a non capirlo, magari è come una musica di cui non mi piace il sound. E ci sono ristoranti che ho amato la prima volta in cui ci sono andato, non mi sono piaciuti la seconda e sono rimasto piacevolmente sconvolto la terza. Oppure nel menu ci sono due piatti che mi hanno impressionato e altri che non ho capito.
E ti ricordi sempre i loro nomi o qualche dettaglio quando li rivedi?
Certo, e loro ne sono sempre felici.
Sono un gourmand inusuale, non condivido le mie esperienze sui social media. In primis perché lo facevo molto in passato, adesso invece preferisco entrare, presentarmi e parlare con loro. È il modo in cui ho stretto rapporti con molti chef, persone che ammiro, a volte fanno piatti che non sono particolarmente estrosi ma non importa. A volte mi chiedono un’opinione e io dico sempre cosa penso funzioni e cosa no. È come quando fai un complimento o una critica su un albero, puoi sempre far notare qualcosa di buono. Quindi in tutto il menu c’è sicuramente qualcosa di incredibile o che può ispirare, anche solo un piccolo dettaglio.
Quindi un menu di 10-12 portate in cui 2 o 3 piatti erano totalmente sbagliati per il tuo palato, per te va bene.
Sì, assolutamente. Di recente sono andato in un ristorante con 3 stelle, hanno cucinato un piatto molto tipico, molto specifico della loro zona, che ho mangiato già altre volte, e penso che quel piatto sia incluso per far capire a chi non è avvezzo a frequentare quella zona quanto sia prezioso un determinato ingrediente, ma personalmente ho mangiato quel piatto moltissime volte, e non c’era bisogno di mangiarlo di nuovo. Ma solo perché so già cosa c’è dietro quel piatto, per me va bene, ha senso. Non ne vado particolarmente pazzo, ma per me va comunque bene.
Considerando lo sforzo che hanno messo nel piatto, c’è per forza qualcosa che valga la pena osservare, qualcosa che meriti la tua attenzione. E spesso la compagnia è il miglior ingrediente. All’inizio può essere molto distraente, quindi se vuoi imparare un sacco è molto importante mangiare da soli, anche perché a un certo punto la sala diventa un palco, inizi a guardare gli altri tavoli, origli le conversazioni, guardi come la gente reagisce allo stesso piatto che hai avuto tu e segui il ritmo, è molto interessante. Provo sempre a sedermi in un angolo in cui posso avere la vista migliore di tutta la sala, e anche quando parlo con qualcuno faccio attenzione a cosa sta succedendo, quali sono le loro reazioni a una cosa o a un’altra.
Dove hai mangiato l’uovo più memorabile della tua vita? Com’era cucinato?
Il secondo amuse-bouche all'Azurmendi, entri in cucina, sei salutato in lingua basca, e ti trovi questo uovo al tartufo cotto dall’interno.
Il tuorlo è su un cucchiaio, con una siringa ne risucchiano metà e ci iniettano una salsa tiepida a base di tartufo nero estivo. Poi ti fanno aspettare e mentre ti intrattieni con altri stuzzichini, la temperatura della salsa ha parzialmente cotto l’uovo, e la pellicola attorno al tuorlo è intatta; è come se la gallina avesse mangiato il tartufo il giorno prima e ne è uscito un uovo al tartufo. È così semplice, eppure allo stesso tempo così ingegnoso.