Produci. Consuma. Crepa. Così cantavano nel 1986 i CCCP - Fedeli alla linea nel brano Morire.

Questo assioma sembra rispecchiare alla perfezione il ciclo di vita di un qualsiasi bene di consumo generato in un modello economico lineare: produzione, utilizzo e morte, ossia lo smaltimento sotto forma di rifiuto. Per lungo tempo abbiamo considerato il Pianeta una fonte inesauribile di materiali ed energie facilmente reperibili, pertanto abbiamo sfruttato il più possibile le risorse naturali per soddisfare qualsivoglia desiderio consumistico e ancora oggi, continuando a produrre senza sosta e a consumare irresponsabilmente, generiamo un’infinità di rifiuti che solo in parte trovano una seconda vita nelle pratiche di riutilizzo e riciclo. Tutto il resto muore e giace sepolto in discarica, già sostituito dall’ennesimo nuovo oggetto che presto o tardi subirà il medesimo destino.

Per renderci conto della portata di questo fenomeno basta analizzare gli ultimi dati diffusi dal Parlamento Europeo. Ogni anno vengono prodotti più di 2,5 miliardi di tonnellate di rifiuti e di questi circa il 10% è di origine urbana. Ad oggi circa il 46% di tutti i rifiuti urbani è riciclato o compostato (contro il 55% minimo fissato come obiettivo da raggiungere entro il 2025), mentre il 24% è smaltito in discarica. Quest’ultimo dato è particolarmente distante dall’obiettivo fissato dall’UE

che prevede di limitarne la quota al 10% entro il 2035.

Se a valle il modello economico lineare genera una grande quantità di rifiuti, a monte assistiamo all’incessante sovrasfruttamento delle risorse naturali, le quali però sono tutt’altro che inesauribili. Inoltre, secondo il Global Resources Outlook 2019, “l'estrazione e il trattamento delle risorse naturali […] sono responsabili di più del 90% della nostra perdita di biodiversità, dello stress idrico e di circa la metà del nostro impatto sul cambiamento climatico”. Anche i sistemi di produzione alimentare gravano enormemente sull’ambiente: nell’UE si stima che contribuiscano a circa il 10% delle emissioni totali di carbonio, di cui il 70% sono da attribuire agli allevamenti intensivi.

La necessità di razionalizzare l’uso delle risorse terrestri, di adottare pratiche di consumo più consapevoli e sostenibili, di limitare la produzione di rifiuti e più in generale di affrontare le sfide della crisi ecologica hanno spinto la Commissione Europea a presentare nel marzo del 2020 il nuovo piano d'azione per l’economia circolare, che s’inserisce nel più ampio progetto del Green Deal, una vera e propria tabella di marcia che scandisce le tappe necessarie al raggiungimento della neutralità climatica entro il 2050. Il piano d'azione individua alcuni settori chiave dove è necessario intervenire tempestivamente per raggiungere gli obiettivi di circolarità e sostenibilità e tra questi vi è anche l’alimentare, per il quale in Europa si stima uno spreco totale di cibo prodotto pari addirittura al 20%.

Ma che cos’è l’economia circolare? In netta antitesi allo schema lineare che fa del take-make-waste il suo fulcro, il nuovo modello s’ispira alle dinamiche degli ecosistemi naturali, in cui non esistono discariche perché tutto si riutilizza. Si tratta di un sistema pensato per potersi rigenerare da solo, che punta ad azzerare la produzione di rifiuti sia preservando il più a lungo possibile il valore dei prodotti e dei materiali attraverso pratiche di condivisione, prestito, riutilizzo, riparazione e ricondizionamento, sia reimmettendoli in circolo per dar vita a nuovi cicli produttivi e quindi generare nuovo valore. Chiudono il cerchio l’uso di strategie di eco-progettazione e un impiego sempre più estensivo delle energie rinnovabili. L’economia circolare è dunque molto più che una semplice riforma del modello attuale, è un vero e proprio cambio di prospettiva, un nuovo paradigma industriale, economico e sociale e soprattutto un sistema di soluzioni in grado di affrontare efficacemente le sfide globali del cambiamento climatico, della perdita di biodiversità, dei rifiuti, dell’inquinamento…

Se applicata al settore alimentare, che con il suo forte impatto ambientale concorre significativamente all’attuale crisi ecologica, l’economia circolare può contribuire alla realizzazione di sistemi di produzione più sostenibili dove l’uso dei pesticidi, degli antimicrobici e dei fertilizzanti è fortemente ridotto, le pratiche di agricoltura biologica intensificate e il benessere animale migliorato. Proprio questi sono gli obiettivi della strategia europea “Dal produttore al consumatore"

per un sistema alimentare equo, sano e rispettoso dell’ambiente, anch’essa al centro del Green Deal e in linea con l’Agenda2030 per lo Sviluppo Sostenibile. Applicare l’economia circolare al settore alimentare significa costruire un sistema del tutto rigenerativo ed ecosostenibile che tuteli la biodiversità e al tempo stesso assicuri cibo sano e sicuro per chiunque, minimizzando la produzione di rifiuti e più in generale le perdite (food losses) e gli sprechi (food waste) che purtroppo si registrano lungo tutta la filiera.

Prevenire è meglio che curare e il modello circolare applica alla lettera questo precetto, soprattutto nelle fasi iniziali della filiera agroalimentare, dove si verificano la maggior parte delle perdite di cibo ancora edibile, molte delle quali dovute al non soddisfacimento degli standard estetici e dimensionali imposti dalla grande distribuzione. L’ammontare di queste perdite nel settore ortofrutticolo si aggira intorno al 20% ma può raggiungere picchi del 70-80% nelle stagioni di raccolta climaticamente instabili e purtroppo sempre più frequenti. Se una parte dei prodotti viene svenduta alle industrie di trasformazione alimentare, un’altra parte viene invece abbandonata sul campo. Proprio qui interviene Bella Dentro, un progetto di recupero dell’invenduto prima che diventi food loss. L’obiettivo è quello di acquistare “direttamente dall’agricoltore, ad un prezzo equo […], la parte di prodotto esteticamente imperfetta al momento della raccolta”, proporlo in vendita così com’è oppure trasformarlo in marmellate, succhi, conserve ed essiccati grazie alla manodopera di persone con disabilità fisiche e psichiche. Ecco un bell’esempio di economia circolare e imprenditoria sostenibile che ha fatto delle perdite alimentari una risorsa per creare nuovo valore economico e sociale.

Se lo spreco si verifica a valle della filiera agroalimentare, nella fasi di trasformazione industriale, distribuzione e consumo finale si parla di food waste. È il caso dell’invenduto che, se non recuperato per essere redistribuito a scopi di beneficienza, rischia di trasformarsi in rifiuto, a meno che non venga intercettato prima e convertito in qualcosa d’altro. Ne è un esempio Biova, un progetto di filiera corta locale e di economia circolare “che trasforma il pane invenduto in birra premium artigianale”. Oltre ad eliminare lo spreco alimentare, viene risparmiata una quota di materia prima sotto forma di malto d’orzo che, una volta usato per produrre la birra, viene poi rigenerato per realizzare dei gustosi snack. Più circolare di così non si può!

Quando le perdite e gli sprechi non sono evitabili, esiste la possibilità di recuperare il loro potenziale valore se adeguatamente differenziati e processati. Tali sottoprodotti alimentari possono essere destinati al compostaggio oppure essere trasformati in mangimi animali, a patto che siano privi di inquinanti (da qui la necessità di evitare a monte l’uso di pesticidi e altre sostante chimiche potenzialmente inquinanti e nocive per la salute). In alternativa possono essere utilizzati per scopi energetici o per la generazione di biomateriali. I fondi di caffè rappresentano un ottimo esempio di sottoprodotto alimentare facilmente sfruttabile nel modello economico circolare. Lo sa bene la Cooperativa Sociale Il Giardinone che in collaborazione con Lavazza, Novamont e il Politecnico di Torino ha lanciato qualche anno fa FungoBox, un “kit di autoproduzione di funghi freschi dagli scarti del caffè”. Da quell’esperienza è poi nato il progetto Coffeefrom, un materiale bio-based ricavato dai fondi di caffè di origine industriale e PLA (un biopolimero di origine non fossile), con il quale vengono prodotte tazzine dal design appositamente pensato per un’ottimale degustazione del caffè.

Progettare un futuro sostenibile non solo è auspicabile e possibile, ma è doveroso e fattibile. La via da intraprendere è chiara ed è già stata tracciata, riusciremo infine a produrre meglio, consumare meno e più consapevolmente, generare valore anziché rifiuti?