Sara Olocco, imprenditrice... agricola

Sara Olocco, attraverso la sua Braja (che in piemontese significa “urla”) farm ha trasformato la cascina di famiglia in un concept di successo.

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29 anni, una formazione all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, una passione per il vino, una predilezione per la terra, per l’ospitalità e per il territorio, un biglietto andata e ritorno per New York, l’incontro con Joe Bastianich e le radici a Sommariva del Bosco (CN). Questi, in sintesi, i numeri di Sara Olocco, che attraverso la sua Braja (che in piemontese significa “urla”) farm ha trasformato la cascina di famiglia in un concept di successo, dove si coltiva, ci si sporca le mani di terra, si segue la stagionalità, si realizzano menu vegetali, si promuovono le tantissime realtà agricole piemontesi, si “urla” al mondo che ci sono tanti modi per lavorare la terra e che il campo da coltivare è solo la chiave d’accesso a un universo infinito. Molto più di un’azienda agricola, molto più di un ristorante, molto più di un catering, celebrato in occasione della dieci giorni di Festa dell’orgoglio locale, organizzata da Eataly nei giorni scorsi.

Sara. Chi è e cosa fa nella vita?

"Imprenditrice agricola" è la definizione che mi descrive meglio al momento. Nel 2020 sono tornata in Italia da New York a causa del Covid, e in valigia ho messo tutto il bagaglio professionale costruito in quel periodo americano, la passione e la formazione da sommelier e soprattutto la voglia di realizzare qualcosa di mio. Ho sempre avuto in mente l'idea di un progetto da far germogliare nella cascina di famiglia, che avesse a che fare con l'ospitalità, la promozione dei vini e l'agricoltura. È nato così l'orto sperimentale, che se vogliamo ha rappresentato una terapia d'urto post rientro - che non è stato proprio dei più semplici -. Con i prodotti coltivati abbiamo iniziato a fare qualche evento, e da qui è nato il concept Braja farm, che è il punto di incontro tra la nostra produzione ed altre realtà fatte di giovani agricoltori del territorio piemontese.

…si sporca anche le mani di terra, quindi?

Assolutamente sì. L'idea dell'orto sperimentale è nata proprio perché, di rientro dagli USA, avevo bisogno di un'attività che mi impegnasse anima e corpo, e mettermi fisicamente a coltivare la terra mi sembrava un gesto così vero, così semplice e puro, che poteva ridarmi la felicità e la serenità. Oggi mi occupo di tutto ciò che posso, in campagna, in cucina, in sala, ovunque. 

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Italia-Stati Uniti. Perché ha deciso di partire, e perché poi ha deciso di tornare e di restare in Italia? 

Sono andata negli Stati Uniti subito dopo il master presso l'Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo; avevo bisogno di fare esperienza all'estero, volevo vedere il mondo, confrontarmi con nuove culture, conoscere altre persone e altri gusti, aprire la mente e sperimentare. A livello lavorativo mi è servito tantissimo, ma dentro sentivo il desiderio pressante di tornare in Italia. Una volta rientrata, mi sono sentita di nuovo a casa come mai prima d'ora, complice forse la difficile situazione sanitaria che stavamo vivendo a livello mondiale, e che spingeva a ritrovare quel senso di famiglia che in fasi di vita normale si tende magari a mettere un po' da parte. Da quel momento ho cercato di costruire il mio mondo a casa mia, partendo dalla natura e dalla famiglia, per arrivare a organizzare eventi che mi hanno messo in contatto con un pubblico molto vario, spesso fatto di stranieri. Ho ritrovato tutto quello per cui ero partita, qui, nella cascina di famiglia e non mi pento di essere rimasta. Anzi. Non c’è altro posto dove vorrei stare ora.

Come è arrivata a lavorare con Joe Bastianich?

Il primo anno, appena arrivata negli Stati Uniti, ho lavorato in un piccolo bar di vini naturali a Brooklyn, che mi è servito per ambientarmi. Poi, tramite l'università di Pollenzo ho attenuto un incontro con il gruppo Bastianich e da lì è nata un'esperienza semplicemente bellissima. 

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A che punto è la cultura enologica americana?

Smentisco categoricamente che gli americani non sappiano bere vino, se la domanda punta a quello. Il wine I.Q (il livello di conoscenza) di chi si approccia al vino, è parecchio alto. Soprattutto a New York, tendenzialmente i clienti hanno un'ottima cultura alle spalle e un forte potere d'acquisto, il che significa che hanno assaggiato e viaggiato molto. Gli americani, almeno per mia esperienza, sono molto informati e appassionati di vini italiani.

Che vini si servono a New York?

Oltre a quelli italiani, per lo più le richieste puntano alla Francia e alla California. 

Quanto è difficile oggi essere un'imprenditrice e quanto lo è stato in pandemia?

In pandemia è stato difficilissimo, il progetto è partito a ottobre 2020 e abbiamo inaugurato a maggio 2021, quindi in piena crisi. Da un lato il momento di estrema tranquillità ha facilito le cose, dall'altro si facevano quotidianamente i conti col fatto che il mondo fosse bloccato, che mancasse tutto quello che serviva, dai materiali alla mano d'opera. E anche il guasto di una lavastoviglie diventava un dramma. Un format come il nostro, che vive principalmente di turisti, ha vissuto e vive tutt'ora momenti di grande difficoltà. 

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Il suo ritorno in Italia e l'inizio dell'attività di Braja farm, hanno avuto un'importante copertura stampa. Cosa ha di speciale?

Penso che il progetto sia interessante trasversalmente. Da qualcuno è stato definito come una concept farm, siamo un'azienda agricola, ma non vendiamo prodotti freschi, li trasformiamo e li facciamo assaggiare durante gli eventi, pur non essendo comunque un ristorante, proponiamo menu degustazione totalmente vegetali, gestiamo un e-commerce per vendere i nostri prodotti e quelli di altri produttori del territorio, organizziamo esperienze, come quella di venire nel nostro orto con la propria cassetta, raccogliere gli ortaggi e portarli a casa, organizziamo degustazioni di vino, e tanto altro ancora. Tutti questi aspetti insieme costruiscono un contenitore molto particolare e quasi unico. Se il tutto poi è coadiuvato da una giovane imprenditrice donna, dà quella nota di novità in più. 

Da giovane imprenditrice donna, si lavora meglio all'estero o in Italia?

Si lavora meglio all'estero. Non ci sono pregiudizi verso le donne e verso la giovane età, le strade sono aperte a prescindere dal genere o dalla carta di identità. In America ho notato – purtroppo – molta più meritocrazia. 

Dicono che il mondo della gastronomia sia molto maschilista. E quello del vino?

Annuisco con la testa, ma a parole dico che qualche cambiamento si inizia a notare. In Piemonte ci sono già tante donne del vino che non solo lo studiano ma diventano anche produttrici. Fortunatamente si sta andando verso una nuova direzione.

Quanto è importante integrarsi nel territorio? Tanti ne parlano come fosse una bandiera da sventolare e non sempre si riesce a riempire di significato questo concetto.

L'integrazione con il territorio è fondamentale, ma non è semplice far comprendere di cosa ci occupiamo. A volte perfino mio padre stenta a capirlo! Spiegarsi a chi sta sul territorio da sempre, ai vicini di casa, che non hanno la forma mentis per approcciarsi a progetti così diversi dai loro, richiede costanza. Portare gli artigiani ai nostri eventi ha sempre un ottimo riscontro, si innamorano del progetto e vogliono prenderne parte. Fortunatamente sul territorio ci sono tantissimi giovani imprenditori agricoli, che masticano di internet e di e-commerce e grazie a loro si riesce a costruire un gruppo sempre più folto di persone che vanno in una certa direzione. Più il gruppo diventa grande, più la voce diventa potente e c'è più possibilità di farsi sentire. 

Si tende a pensare che una figura così specializzata come la sua sia difficile da integrare in un ambito agricolo. 

Eppure, è in campagna che ho deciso di mettere radici. Mi sembrava la migliore connessione tra quello che sono stata e che ho imparato e quello che sono diventata, formandomi. Il punto d'incontro perfetto tra il mondo agricolo e quello dell'ospitalità esperienziale. Gli ortaggi hanno fatto da trait d'union nella mia vita.

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Come si studiano un piatto e una carta vini?

Il nostro è un approccio 100% vegetariano, seguendo la stagionalità dell’orto. Da lì si parte per spostarsi poi nella dispensa, che contiene materia prima del territorio, farine antiche piemontesi, tipo quella di mais pignoletto, ingredienti a base di latticini, formaggi tipo il Seirass, che usiamo nei dolci, composte, riso locale e tutto ciò che il territorio può offrire. Per quanto riguarda l'abbinamento vini, sono piuttosto ortodossa, nel senso che scelgo sempre vitigni autoctoni piemontesi, tipo la Slarina, i cui produttori si contano sulle dita di una mano. Il che significa che anche l'Alta Langa, non essendo fatta con varietà autoctone, non è inclusa in carta. Il focus è incentrato anche su varietà in via di estinzione, perché i produttori che ancora credono in qualcosa che sta svanendo vanno sostenuti a gran voce.

Che ci fa dentro Eataly?

Sono stata invitata da Eataly in occasione della Festa dell’orgoglio locale, in cui per dieci giorni, si promuoveva la biodiversità del territorio piemontese. È la prima volta che mi approccio a questa incredibile realtà. È stata una bellissima sorpresa, un grande onore, anche perché sono cresciuta studiandoli (Eataly è stata oggetto di una mia tesi all'università). Un vero tempio dell'artigianato del cibo italiano. 

Che sapore ha la felicità?

Un piatto di spaghetti al pomodoro fatto con la nostra passata. Sa di casa, di passato e di futuro.

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