Il conflitto tra Russia e Ucraina avrà inevitabilmente ripercussioni anche sulla nostra vita di tutti i giorni. Abbiamo voluto concentrarci sulle persone che cercano di contenere le conseguenze di una guerra cruciale per l'agroalimentare.
La guerra può essere raccontata in tanti modi. Abbiamo provato a fare squadra, facendo la nostra squadra, provando a contattare e raggiungere personaggi di spicco, non solo italiani, chiamati in causa o impegnati attivamente per cercare di contenere le conseguenze di un conflitto che pare nessuno abbia voluto scatenare.
Iniziamo con l’intervista a Ettore Prandini, presidente della Coldiretti Nazionale dal 2018, anche Vicepresidente dell’Associazione Italiana Allevatori e Presidente dell’Istituto Sperimentale Italiano “L. Spallanzani”.
Abbiamo atteso il suo ritorno dalla 115esima edizione di Fieragricola (International Agricultural Technologies Show), inizialmente prevista a fine gennaio ma riprogrammata a marzo, come conseguenza del picco epidemico della variante Covid Omicron. Pensate che Agritechnica, kermesse tedesca in programma ad Hannover è stata invece slittata a novembre 2023, dal momento che le condizioni per ospitare una fiera leader mondiale delle macchine agricole non sono più soddisfatte - e mai scelta fu così tanto lungimirante.
Con oltre un milione e mezzo di associati siete la principale organizzazione degli imprenditori agricoli a livello nazionale ed europeo. Come sta la categoria, presidente?
La situazione è complessa, con i costi di produzione esplosi dai foraggi all’energia, dai concimi agli imballaggi. Le aziende agricole lavorano e resistono per continuare a garantire le forniture alimentari alle famiglie italiane.
Lo stop dell'export da Ucraina e Ungheria ha realmente stravolto il mercato?
Con la decisione dell’Ungheria di ostacolare le esportazioni nazionali di cereali, soia e girasole, in Italia è a rischio un allevamento su quattro che dipende per l’alimentazione degli animali dal mais importato. Si tratta del comportamento irresponsabile di un Paese che fa parte dell’Unione Europea come l’Ungheria che ha bloccato anche l’export di grano e altri cereali come segale, orzo, avena e quello di semi di soia e di girasole fino al 22 maggio.
Dall’Ungheria sono arrivati in Italia ben 1,6 miliardi di chili di mais nel 2021 mentre altri 0,65 miliardi di chili dall’Ucraina per un totale di 2,25 miliardi di chili che rappresentano circa la metà delle importazioni totali dell’Italia che dipende dall’estero per oltre la metà del proprio fabbisogno.
Quali rischi corre il nostro paese?
Esiste il rischio concreto di non riuscire a garantire l’alimentazione del bestiame, da salvare ci sono tra l’altro 8,5 milioni di maiali, 6,4 milioni di bovini e oltre 6 milioni di pecore. Una situazione che aggrava l’emergenza in Italia che è un Paese deficitario ed importa addirittura il 64% del proprio fabbisogno di grano per la produzione di pane e biscotti e il 53% del mais di cui ha bisogno per l’alimentazione del bestiame. L’aumento delle quotazioni del mais, che sono al massimo da un decennio, sta mettendo in ginocchio gli allevatori italiani che devono affrontare aumenti vertiginosi dei costi a fronte di compensi fermi su valori insostenibili. Ad esempio, il costo medio di produzione del latte, fra energia e spese fisse, ha raggiunto i 46 centesimi al litro secondo l’ultima indagine Ismea, un costo molto superiore rispetto al prezzo di 38 centesimi riconosciuto a una larga fascia di allevatori.
Assodato che l'Ungheria sta ostacolando le esportazioni nazionali di cereali, soia e girasole, come far sì che in Italia non siano a rischio i nostri allevamenti?
L’Italia è obbligata ad importare materie prime agricole a causa dei bassi compensi riconosciuti agli agricoltori che sono stati costretti a ridurre di quasi 1/3 la produzione nazionale di mais negli ultimi 10 anni durante i quali è scomparso anche un campo di grano su cinque con la perdita di quasi mezzo milione di ettari coltivati perché molte industrie per miopia hanno preferito continuare ad acquistare per anni in modo speculativo sul mercato mondiale, approfittando dei bassi prezzi degli ultimi decenni, anziché garantirsi gli approvvigionamenti con prodotto nazionale attraverso i contratti di filiera sostenuti dalla Coldiretti. Dobbiamo investire per potenziare le produzioni nazionali per poter garantire l’autosufficienza alimentare al Paese.
Nel complesso sono cresciuti di almeno un terzo i costi di produzione. Quante realtà imprenditoriali rischiamo di perdere per strada, sommando il conflitto appena scoppiato ai due anni di pandemia?
Per lo scoppio della guerra e il balzo dei costi energetici l’agricoltura deve pagare una bolletta aggiuntiva di almeno 8 miliardi su base annua, rispetto all’anno precedente, che mette a rischio coltivazioni, allevamenti, e industria di trasformazione nazionale ma anche gli approvvigionamenti alimentari di 5 milioni di italiani che si trovano in una situazione di indigenza economica. Dall’inizio del conflitto si è verificato un balzo medio di almeno 1/3 i costi produzione dell’agricoltura a causa degli effetti diretti ed indiretti delle quotazioni energetiche. Nel sistema produttivo agricolo i consumi diretti di energia includono il gasolio per il funzionamento dei trattori, per il riscaldamento delle serre e per il trasporto mentre i consumi indiretti sono quelli che derivano dall’energia necessaria per la produzione di prodotti fitosanitari, fertilizzanti e impiego di materiali come la plastica.
Parliamo di rincari insostenibili.
Gli agricoltori sono costretti ad affrontare rincari insostenibili dei prezzi per il gasolio necessario per le attività dei trattori che comprendono l’estirpatura, la rullatura, la semina, la concimazione l’irrigazione che insieme ai rincari di concimi e mangimi spinge quasi un imprenditore su tre (30%) a ridurre la produzione, mentre il prezzo medio del gasolio per la pesca è praticamente raddoppiato (+90%) rispetto allo scorso anno costringendo i pescherecci italiani a navigare in perdita o a tagliare le uscite e favorendo le importazioni di pesce straniero. Senza dimenticare i costi per il riscaldamento delle serre per la produzione di ortaggi e fiori le serre con la necessità di contenere i costi che rischia di far scomparire alcune delle produzioni più tipiche. Per non parlare dell’esplosione dei costi degli imballaggi, dalla plastica per i vasetti dei fiori all’acciaio per i barattoli, dal vetro per i vasetti fino al legno per i pallet da trasporti e alla carta per le etichette dei prodotti che incidono su diverse filiere, dalle confezioni di latte, alle bottiglie per vino, olio, succhi e passate, alle retine per gli agrumi ai barattoli smaltati per i legumi.
In molti chiedono di rivedere le politiche agricole. Ma in che direzione, volendo entrare nei dettagli e parlare concretamente?
La pandemia prima e la guerra poi hanno dimostrato che la globalizzazione spinta ha fallito e servono rimedi immediati e un rilancio degli strumenti europei e nazionali che assicurino la sovranità alimentare come cardine strategico per la sicurezza. La stessa politica agricola, Comune (Pac) e il Pnrr oggi sembrano già inadeguati a rispondere alle esigenze del tempo nuovo che stiamo vivendo e vanno modificati eliminando ad esempio l’obiettivo del 10% di terreni incolti previsto nella strategia biodiversità. Per questo bisogna agire subito facendo di tutto per non far chiudere le aziende agricole e gli allevamenti sopravvissuti con lo sblocco di 1,2 miliardi per i contratti di filiera già stanziati nel Pnrr, ma anche incentivando le operazioni di ristrutturazione e rinegoziazione del debito delle imprese agricole a 25 anni attraverso l’Ismea, riducendo le percentuali IVA per sostenere i consumi alimentari, prevedendo nuovi sostegni urgenti per filiere più in crisi a causa del conflitto e del caro energia e fermando le speculazioni sui prezzi pagati degli agricoltori con un efficace applicazione del decreto sulle pratiche sleali. E poi investire per aumentare produzione e le rese dei terreni con bacini di accumulo delle acque piovane per combattere la siccità, contrastare seriamente l’invasione della fauna selvatica che sta costringendo in molte zone interne all’abbandono nei terreni e sostenere la ricerca pubblica con l’innovazione tecnologica e le NBT a supporto delle produzioni, della tutela della biodiversità e come strumento in risposta ai cambiamenti climatici.