Tutta la verità, nient’altro che la verità

Tuorlo magazine incontra Andrea Petrini

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In vista della prossima edizione di Gelinaz! che avrà luogo domenica 29 agosto, noi di Tuorlo siamo riusciti a fare una chiacchierata con Andrea Petrini, l’ideatore degli eventi culinari più innovativi del mondo.

Esperto di cucina, innovatore e protagonista della scena del fine-dining, Andrea si batte per liberare la cucina contemporanea dal peso del marketing e dalla dittatura dei social media. Per lui un vero talento creativo deve poter avere coraggio, andare oltre le regole ed esprimersi liberamente, ma anche aprirsi ed ascoltare.

In una conversazione estremamente pericolosa, Andrea ci ha convinti del fatto che la ristorazione ha bisogno di un reboot, ci ha svelato cosa dovrebbero fare i ristoranti per uscire bene dalla pandemia e come mai non riesca a trovare l’artista definitivo per la sua playlist del pranzo della domenica.

Gelinaz! nel 2021

In ogni edizione di Gelinaz! aumentiamo la posta in gioco introducendo nuove sfide. Questo evento sarà il secondo capitolo del nostro format Silent Voices, a cui si unirà un nutrito gruppo di ristoranti e chef internazionali: dal Cile agli Stati Uniti, dal Giappone alla Francia, gli chef remixeranno le ricette scritte dalle Silent Voices, cuochi che hanno perso i loro ristoranti a causa della pandemia, o che durante il lockdown hanno scritto ricette che non sono mai state cucinate.

Da parte nostra, si tratta di un modo per ridare voce a queste persone. Ed è anche un modo per reagire a quei brand che hanno realizzato azioni di marketing opportunistiche, fingendo di supportare i ristoranti, in molti casi senza un vero coinvolgimento.

Noi vogliamo dire tutta la verità e nient’altro che la verità, lontano dal loro mondo di ipocrisie.

Il lockdown ha cambiato le regole. Ma ci sono esempi di reale cambiamento della scena gastronomica? Cosa pensi dei nuovi format e dell’uso del delivery: hanno portato un reale cambiamento?

Pensa a pochi mesi fa, eravamo tutti chiusi in casa ad affrontare un momento difficile. Per gli chef, abituati a trascorrere il tempo dentro i ristoranti, si è presentata una necessità economica ed anche psicologica di non restare con le mani in mano: era importante sia pagare l’affitto sia mantenere il team in vita e portare avanti le relazioni con i fornitori. Certamente il delivery è stata una buona soluzione per sopravvivere.

Ma se mi chiedi se ci sia stato un reale cambiamento nel mondo del food in questo anno e mezzo di pandemia, la mia risposta temo sia un no. E la colpa è di tutti noi - tutti abbiamo paura di cosa ci porterà il domani. I ristoranti in giro per il mondo hanno semplicemente aspettato di riaprire e tornare alla normalità, ma non ho visto una vera rivoluzione.

Certamente i grandi clienti, i globetrotter che erano abituati a viaggiare da una parte all’altra del mondo solo per cenare in un ristorante sono venuti a mancare. Per questo gli chef si sono ritrovati ad avere a che fare con clienti più locali, e paradossalmente a doversi aprire di più, ad essere più inclusivi.

Fino a quel momento i cuochi stessi viaggiavano non-stop per promuovere se stessi nell’ambito di cene e congressi, sempre più lontani dalla propria cucina.

Ma per me le persone devono essere più aperte ed inclusive e comunicare con più dolcezza. Ora che siamo tutti più a contatto con i nostri vicini, forse dovremmo utilizzare un tono più pacato.

Oppure può essere un buon momento per fare ricerca e prendere rischi, sperimentare, in piccolo.

Dipende da quanto il tuo team è unito e quanta maestria riesci a esprimere in questo momento.

Perciò in generale la pandemia ci ha fatto fare un passo indietro, e non è una cosa buona.

In momenti come questo le persone hanno bisogno di essere rassicurate, e niente può essere più rassicurante del comfort food. La maggior parte dei ristoranti infatti non sta spingendo su idee nuove, stanno piuttosto cercando di essere più rassicuranti, meno provocatori, meno appariscenti. E di prendere tempo, vedere cosa succede.

È una situazione strana ed intrigante, una fase di passaggio.

Penso che il miglior prossimo passo che possiamo fare sia di stare un po’ più al riparo dalla dittatura di Instragram e lavorare con più calma e concentrazione. Ritrovare un equilibrio tra voler rispondere alle necessità del mercato e farsi trascinare dalla necessità di dover sempre sorprendere ad ogni costo. Recuperare un po’ di quella semplicità che ultimamente si è persa. Questo vale per tutti noi.

Quindi sei d’accordo con Alain Ducasse? ci saranno sempre meno ristoranti di fine-dining?

Eravamo nel suo ufficio, fine anni ‘90, e lui con grande convinzione disse che entro 10 anni ci sarebbero stati molti meno ristoranti di fine-dining perché il mondo stava cambiando per via della globalizzazione. Sosteneva che le materie prime sarebbero diventate più costose e sarebbe stato più difficile sopravvivere.

Intuiva che il mercato sarebbe stato trainato da locali più casual, adatti a una maggior frequenza, mentre i ristoranti di altissima fascia sarebbero stati sempre più isolati, costosi e inaccessibili. Sentiva che questa polarizzazione si stava concretizzando.

Come trend generale, la classica cena di famiglia al ristorante stellato che ti concedi una volta all’anno sta diventando così costosa da essere sempre meno accessibile.

Anche nel largo consumo sta succedendo questo: si espandono i discount e la produzione industriale mentre il cibo sostenibile è sempre più caro.

Questo mi fa pensare che nel mondo della ristorazione stia venendo a mancare la capacità di mettersi in discussione. Se sei un architetto, un designer oppure un regista o uno scrittore ti devi domandare per chi stai lavorando, a chi andrà il frutto del tuo lavoro, e ti devi adeguare, devi ascoltare.

Ho l’impressione che invece i cuochi e i ristoranti continuino a non porsi le giuste domande e a portare avanti i ristoranti secondo un modello ormai superato in cui l’alta ristorazione era esclusivamente dedicata a una borghesia che oggi non c’è più. C’è bisogno di un rinnovamento serio e purtroppo non mi pare che questo stia accadendo. La pandemia non ha veramente spinto i cuochi a fare un passo oltre.

Però la pandemia ha riavvicinato un po’ i ristoranti ai loro fornitori. Farm-to-table è il nuovo mantra?

Vero, ma non è niente di nuovo. Già diversi decenni fa Alain Chapel aveva introdotto il concetto del farm-to-table approvigionandosi di ingredienti di stagione e valorizzando i suoi fornitori nel menu. Nel tempo sempre più ristoranti hanno cominciato ad aprirsi all’autoproduzione, ma avere a cuore la qualità della materia prima e conoscerne l’origine mi sembra il minimo che possano fare.

Questo trend per me è una notizia di ieri. Certo, è importante andare in quella direzione, ma anche andare avanti, fare qualcos’altro! Alain Chapel è morto nel 1990.

C’è qualcuno che non ti annoia in Italia?

L’Italia è un Paese interessante per il food.

Mentre la maggior parte dei paesi europei avevano a che fare con un sistema di fine-dining molto farraginoso, di matrice francese, per uno strano mix di ragioni, all’inizio degli anni ‘90 in Italia è nata una nuova generazione di chef. Gente che ha avuto il coraggio di rischiare per sviluppare il proprio stile, dando vita a una bella interpretazione della cucina italiana moderna.

Se pensi ai pionieri della cucina italiana che si sono fatti strada a metà degli anni ‘90 pensi a chef come Carlo Cracco, Massimo Bottura, Moreno Cedroni, Davide Scabin; tutti loro facevano parte di un’avanguardia informale che non aveva precedenti nel mondo e così all’inizio del nuovo millennio questi talenti si sono guadagnati le posizioni più importanti nelle maggiori guide gastronomiche.

Ma la cucina italiana moderna è meno valorizzata di altre, come ad esempio quella nordica o tedesca, perchè l’italia è molto frammentata da nord a sud e la cultura è fortemente individualista e per questo non si riesce a fare sistema e creare una squadra nazionale, come successo in Spagna o in Scandinavia.

Se guardiamo però tra i giovani ci sono alcuni cuochi che stanno facendo un lavoro eccezionale e riconosciuto a livello internazionale. Chef come Antonia Klugman, Giuliano Baldessari, Riccardo Camanini, Paolo Lopriore, Antonio Ziantoni, i ragazzi del Marzapane, i Giglio Boys, Viviana Varese e tanti altri.

Però ora è più difficile. Forse 10 o 20 anni fa era più semplice crescere, ora è tutto più incerto: un giorno hai orde di turisti e appassionati che fanno la fila per entrare, il giorno dopo ti ritrovi da solo a cucinare per una clientela più locale.

La nuova schiera italiana però è una vera fucina di talenti, senza niente da invidiare agli altri Paesi, alcuni dei miei contemporanei preferiti sono italiani.

Quello che è uscito dalle cucine italiane negli ultimi 10-15 anni non ha praticamente rivali nel mondo, solo che nessuno lo sa.

Ci puoi fare il nome di un ristorante che riesce ancora a sorprenderti? Data la tua esperienza, cosa ci vuole per sorprenderti ancora?

Oggi non c’è un ristorante che mi sbalordisca, e forse questa è una cosa buona. C’è una cosa che secondo me è davvero velenosa ed è il modo in cui ci approcciamo ai ristoranti come se ci apprestassimo a vivere un’esperienza rocambolesca o a provare un qualcosa di nuovo, come se dovessimo prenderlo e consumarlo.

Il ristorante che mi potrebbe sorprendere, e che forse non è ancora stato aperto, è un ristorante senza alcuna dicotomia. Per esempio un ristorante che non mi dica “cucino solo verdure per essere sostenibile”. Sarei sorpreso e fottutamente felice di trovarmi in un ristorante che non mi dica “servo solo vini naturali”, oppure “servo solo vini classici”.

Sono tutti impegnati a performare il proprio show personale, a mostrare quanto sono avanti, e non c’è più dialogo tra gli chef, i fornitori e i clienti.

Il ristorante che restituisca un po’ di ascolto, un po’ di libertà, il diritto di voto e di parola anche al cliente, sarà il ristorante che saprà nuovamente sorprendermi dopo tanto, tantissimo tempo.

Per esempio uno che mi sorprende sempre è Paolo Lopriore.

Paolo sta realizzando una delle cucine più d’avanguardia del mondo. Quando ha lasciato il suo ristorante a Siena per tornare sul Lago di Como in un’area così deserta che non riuscivi neanche a trovarci un airbnb, ha iniziato a creare una cucina semplice, profondamente italiana, addentrandosi nell’essenzialità della cucina, eliminando tutto ciò che è decorativo e non necessario, focalizzandosi solo sul gusto primario del piatto ma lasciando un piccolo spazio per la provocazione. In un Paese come l’Italia dove ognuno ha una ricetta di famiglia lui ti serve una pasta che devi assemblare tu, nel modo in cui la preferisci. E non ti sta offrendo piatti destrutturati, ti sta semplicemente dando la possibilità di scegliere di fare quello che vuoi.

In un’epoca in cui la carta dei vini è diventata la maggiore fonte di guadagno per un ristorante, lui ti fa trovare tre bianchi, tre rossi e due bollicine. Questo è coraggio!

Tutti ci sciacquiamo la bocca dicendoci quanto dovremmo tornare all’essenzialità. Bene, se trovi qualcun’altro che sia in grado di essere così selvaggiamente essenziale, ti prego, dimmelo!

Forse non lo trovi su tutte le guide, ma dietro le quinte è uno degli chef italiani più rispettati tra gli addetti ai lavori.

C’è un evento che non hai ancora fatto e che si trova nei tuoi sogni?

Mi piacerebbe fare un Gelinaz! in cui il cibo sia intrecciato con l’arte. Vorrei un dialogo tra arte e cibo portato ad un livello ancora più profondo, che sia per pochi intimi in una galleria d’arte oppure per un pubblico più ampio. Mi piacerebbe coinvolgere dei veri musicisti.

Potremmo farlo solo se un giorno ci liberassimo una volta per tutte di tutte quelle sovrastrutture che ci avvelenano, di tutte quelle regole che ti impediscono di osare, tutti quei vincoli che ci vengono posti in primo luogo dagli sponsor che solitamente non hanno piena comprensione di questo mondo.

Il cibo è arte o mestiere?

È mestiere! ma con lo stesso processo logico dell’arte. Lo abbiamo testato insieme a Nicolas Bourriaud con il progetto Cookbook.19, una mostra che si è tenuta nel 2013 a La Panacee -MoCo (il museo di Montpellier). Abbiamo chiesto agli chef di creare un’opera d’arte con le stesse logiche che usano nel creare un piatto, ottenendo grandi risultati. Alla fine cibo e arte sono linguaggi diversi ma condividono alcuni elementi relativi al processo creativo.

Qual è la playlist perfetta per il pranzo della domenica?

Io pranzo raramente. Quando sono a casa mangio qualcosa di leggero e non ho una canzone particolare.

Ma ultimamente ascolto tantissimo Miles Davis e sto riscoprendo i suoi dischi degli anni ‘60.

Per un pranzo della domenica io sceglierei l’ultimo album di Fiona Apple, ma non piace molto a mia moglie e mi chiederebbe immediatamente di abbassare il volume, quindi lascio perdere.

C’è qualcuno che avresti voluto invitare a Gelinaz e non ci sei riuscito?

Beh, ce ne sono tanti. Ma se invito qualcuno non è perché lo ammiro o lo considero un Dio. Lo invito per metterlo alla prova, vedere come interagisce, come si integra col gruppo.

Se uno viene solo per mettersi in mostra o per farsi pubblicità, sia io che gli altri membri di Gelinaz! lo percepiamo e alla fine, per volontà reciproca, quella persona non tornerà il prossimo anno. È già successo molte volte.

Tutti vogliono venire ma funziona solo se condividi con noi gli stessi valori, la stessa filosofia.

Chi sono i geni della cucina di oggi?

Sicuramente Paolo Lopriore.

Colombe St-Pierre è unica, la ammiro tantissimo per il lavoro che fa a 600km dal Montreal in un luogo ostile abitato da lupi e orsi, dove lei studia la natura e porta avanti la sua famiglia; è un genio ed anche un capofamiglia e io mi levo il cappello di fronte a lei.

Ammiro molto anche Gabriela Camara per come è riuscita a creare dei ristoranti messicani moderni, sia in Messico che a San Francisco. Ammiro quelli che non giocano secondo le regole, che non subiscono la dittatura di Instagram o delle classifiche, per esempio un ragazzo come Corey Lee che è una splendida eccezione nel rutilante mondo del fine dining. Questi sono i più giusti.

Qual è il modo migliore di cucinare un uovo?

Dovresti chiederlo a Carlo Cracco perché lui è il massimo esperto quando si tratta di preparare l’uovo perfetto.

C’è un grande dibattito su questo tema. A me piace in camicia, cotto per 2 minuti e mezzo. Mia moglie direbbe che ci vogliono almeno 3 minuti e mezzo, ma per me sarebbe già troppo cotto. Indubbiamente se fosse un’omelette vorrei che fosse molto poco cotta, per sentire che sta ancora correndo per la vita.

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