La Pianura Padana non è per niente piatta
Il Times l’ha definita “Little Tuscany”, alcuni la chiamano “piccola Loira”, per l’infinita varietà di castelli che sorvegliano campi e colline. Facile da raggiungere da Milano, la porzione di territorio che comprende le province di Pavia, Cremona e Mantova è famosa per essere una delle zone più produttive in Italia, a livello di allevamenti e agricoltura. In realtà, è anche una meta perfetta per un weekend di fuga dalla città o un itinerario in bicicletta alla scoperta della sua storia e dei sapori che la caratterizzano. La sua cucina esprime tutta la complessità delle contaminazioni gastronomiche tra Piemonte, Liguria, Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto.
La Lomellina e il suo riso
Un’ora di macchina da Milano, le risaie scorrono veloci e quando piove sono ancora più belle. L’acqua disegna giochi irregolari tra le insenature dei campi. Nicorvo è un paese di poco più di 200 abitanti al confine tra Piemonte e Lombardia, da lontano lo sorveglia il Monte Rosa. Roberto Marinone ha una piccola azienda agricola, Cascina Bosco, che definisce con orgoglio “ecosostenibile”. Attorno al caseggiato dove vive con la moglie e i due figli ci sono i campi di riso, che con il loro sistema complesso di canali irrigui contribuiscono ad abbassare il rischio di allagamento del territorio. La semina avviene in modo particolare: in campi pieni di erba che serve a proteggere il cereale all’inizio del suo ciclo vitale. Questo permette di controllare il nutrimento del terreno e limitare il proliferare di altri arbusti indesiderati. Il riso cresce più protetto e quando non serve più, l’erba si secca facendogli spazio. E poi miglio, fagioli dall’occhio, grano saraceno, piselli, avena e qualche animale da cortile.
Senza contare che, del riso, non si butta via niente. Lo conferma la storia di Erika Fornaroli, che dagli scarti di produzione ricava olio, farina, sapone e creme per le mani nella sua azienda Naroli.
Quella del riso è una scelta di marketing tutta medievale. Ma andiamo con ordine. Prima del '400 la Lomellina era la terra di nessuno, boschi e colline dove imperavano i briganti. Tutto cambia quando Francesco Sforza, primo duca di Milano, concede al suo fido consigliere Pietro Gallarati di acquistare questa parte di territorio, naturalmente ricco di acqua. Da qui inizia un’opera di canalizzazione delle risorse idriche a cui partecipa anche Leonardo Da Vinci. Grandi spazi e terreno fertile, perfetto per il cereale bianco che in Italia si inizia a coltivare come pianta medicamentosa. Arriva dalla Cina, passa per il Medio Oriente e si diffonde nella Penisola per mano dei mercanti siciliani. Il resto lo fanno il boom demografico e la crescita economica, che danno impulso alla ricerca e al bisogno di trovare sempre nuove varietà di cibo.
Nonostante la produzione in Lomellina e nella provincia pavese rappresenti un terzo del totale nazionale, la zona vanta anche altre eccellenze culinarie. Alcuni degli antipasti più gettonati sono a base di oca. Dal salame in purezza, detto “ecumenico”, ai ciccioli pressati, passando per paté, salame cotto e speck.
Un’altra, grande, protagonista della scena culinaria della Lomellina è la cipolla rossa di Breme, un vero gioiello prezioso, i cui procedimenti di coltivazione sono ancora tutti manuali. Un’eccellenza che nel 2008 è diventata una De.C.O. (denominazione comunale d’origine) e nel 2020 un presidio Slow Food. Mostarde, confetture, sughi e zuppe sono solo alcuni dei modi in cui si può consumare, oltre alla celebre insalata bremese, che la prevede cruda, accostata a tonno e fagioli. La sagra della “cipolla più dolce d’Italia”, secondo l'orgoglio autoctono, è giunta ormai alla sua 42esima edizione: si terrà gli ultimi due weekend di giugno.
Poco distante da Breme, il borgo di Lomello, con la sua chiesa asimmetrica. Camminando nella navata centrale verso l’altare l’effetto è straniante. Le ipotesi sono molteplici, è probabile che, a causa della ricostruzione di alcune parti dell’edificio su antiche fondamenta e della conformazione del terreno, i muri non seguano i tradizionali angoli retti. Tuttavia, secondo la leggenda il colpevole è uno solo: il diavolo. La notte prima del matrimonio tra il re dei longobardi Agilulfo e Teodolinda, Lucifero si intrufolò dentro la chiesa già imbandita e distrusse tutto quanto. Un angelo lo coglie sul fatto e gli impone di ricostruire tutto entro l’alba. È difficile che un lavoro fatto in fretta e furia potesse essere preciso. Se, rivolti all’altare, si alza lo sguardo verso la parete destra della navata, è possibile scorgere una figura bianca dai contorni confusi, come parzialmente murata. Ecco che fine ha fatto, dicono, il diavolo.
L’Oltrepò pavese: non solo (ma anche) salame di Varzi
Se partendo dal confine tra Piemonte e Lombardia ci si dirige verso est per raggiungere Varzi, patria del famoso salame, il modo migliore per spostarsi è sicuramente in sella a una bicicletta. Greenway è il nome della strada ciclopedonale inaugurata nel 2021, che sorge dove, dagli anni ’30 agli anni ’60 del Novecento c’era una ferrovia e nel medioevo tratti di mura fortificate. La strada collega Voghera a Varzi attraverso boschi di pioppi e frutteti di peri, ciliegi e meli. E a proposito di mele, la Pomella genovese è una delle chicche di questo territorio. Dolce simbolo degli scambi commerciali della via del Sale, che percorrevano i mercanti da Genova a Milano attraverso gli Appennini. Un’altra traccia di questo antico percorso sono i piatti tradizionali a base di baccalà.
Dall’influenza degli Sforza si passa ai possedimenti dei Malaspina, famiglia guelfa di origini longobarde che dominò i territori fino alla fine del '700. La leggenda narra che proprio i Malaspina fossero soliti ricevere i propri ospiti offrendo loro una fetta di salame. In effetti, in queste zone è il maiale il protagonista indiscusso, sin dall’epoca dei longobardi. A loro il merito di aver scoperto che la carne di suino insaccata in un budello con una quantità consistente di sale si conserva e, anzi, migliora il suo sapore. Oggi, il salame di Varzi è un’eccellenza italiana famosa in tutto il mondo. Il suo segreto è che tutti i pezzi del maiale, da disciplinare, devono essere utilizzati: coscia, spalla e filetto. La stagionatura minima per certificare il Dop ha bisogno di 30 giorni mentre quelli più pregiati possono arrivare anche a 120-180 giorni. L'altra sua caratteristica è la grana grossa che, a uno sguardo non tanto esperto, lo fa sembrare più grasso. Ma è solo un effetto ottico, dicono.
Il vino del territorio sembra fatto apposta per accompagnare salumi e formaggi: fiumi di Bonarda, da uva autoctona Croatina, che segna di rosso le mani delle persone che lavorano in vigna, lettera scarlatta dei custodi della tradizione. Si può bere in coppe di terracotta, come da tradizione, o in classici calici. Il Buttafuoco esprime appieno le potenzialità del territorio. È un rosso corposo, con un disciplinare severissimo, affinato per un minimo di 12 mesi in botte. Perfetto con la tipica selvaggina, retaggio degli spazi sconfinati che i nobili destinavano alle proprie riserve di caccia e che oggi regalano la territorio un aspetto incontaminato. E poi il metodo classico, che in Oltrepò arriva prestissimo. Già nell’800 infatti c’era lo Champagne d’Italie, che oggi, per ovvie ragioni, ha cambiato nome, soprattutto Pinot Nero vinificato in bianco e in rosato.
Sulle colline tra Voghera e Varzi c’è un’azienda agricola il cui anagramma è, non a caso, armonia. Oranami è la storia della famiglia Tamborlini, di Maria e di sua sorella Lara, 29 e 28 anni, che oggi gestiscono con coraggio una realtà biologica, sostenibile, ma soprattutto felice. Maria si occupa delle 40 capre camosciate e delle 20 mucche di razze diverse. Una di queste è la varzese, una varietà che suo padre ha recuperato insieme ad altri allevatori dopo che per anni nessuno la voleva più, perché considerata poco produttiva. Non mancano le rondini che fanno il nido nelle stalle. Lara sta al caseificio, dove produce formaggi bovini, caprini e misti. È una realtà a ciclo chiuso: tutto ciò che mangiano gli animali lo coltivano loro, anche il grano per fare il pane nel forno a legna con lievito madre.
Mantova e le terre del Po: una fetta di Grana tra Veneto, Lombardia ed Emilia
Grana Padano o Parmigiano Reggiano? È importante non sbagliarsi, perché il confine è molto vicino e nella provincia di Mantova si producono tutt’e due, rispettivamente a nord e a sud del Po. Spesso quindi il Grana viene affiancato dai piatti della tradizione che ricordano l’Emilia: salame, spalla cotta e ciccioli. Con le loro briciole, che restavano sul fondo dei sacchetti, si faceva la focaccia, che oggi resta un piatto goloso e conviviale sulle tavole dei mantovani, perché si sa, del maiale non si è mai buttato via nulla.
Dai Malaspina, qui si passa alle terre dei Gonzaga, una delle famiglie nobili più importanti dell’epoca rinascimentale, anche se, a dirla tutta, in origine erano semplici Signori. Il titolo nobiliare fu acquistato dal capostipite della famiglia, Luigi I, che cambiò anche il nome della discendenza: da Corradi, a Gonzaga, la loro città di provenienza. È facile pensare che le loro origini non proprio aristocratiche li abbiano aiutati anche in cucina, permettendogli di conservare alcune tradizioni più semplici che affiancavano a fastosi banchetti, con ospiti d’onore e pietanze elaborate. Un esempio? Sua maestà il tortello, ripieno di zucca, amaretti e mostarda, che nel mantovano pare si mangi da almeno 5 secoli. Proprio la mostarda è il filo rosso che lega antipasti, primi e secondi, perché oltre alla pasta ripiena si abbina bene con i formaggi, compreso il Grana Padano, e alle carni, come i bolliti o cotechino. Proprio quest’ultimo è protagonista di un altro piatto della tradizione, che lo vede avvolto in un panino. In questa zona lo si mangia anche il 15 di agosto, come ammette la gente del posto, con un certo orgoglio.
C’è un’antica filastrocca che parla degli abitanti delle province lombarde e definisce i mantovani “tutti tristi”. Girando tra i piccoli paesi, tra palazzi, chiese e piazze contornate da portici, simbolo della voglia di “città” della campagna, viene naturale chiedersi il perché di questa descrizione.
E se i fiumi, l’Oglio e il Po, oltre a garantire fertilità al territorio, sembrano dividere le terre che oggi si dicono “redente dall’acqua”, grazie a un complesso sistema di scolo, a riunirle ci pensano i numerosi ponti presenti nella zona. Prima degli interventi di bonifica che consentirono uno sviluppo repentino di agricoltura e allevamento, gli abitanti di quest’area erano detti “mangia trogne”, tubero selvatico che cresce nei boschi, unico, o quasi, frutto di una terra eccessivamente paludosa. Oggi, invece, è tutta un’altra storia.