Fin dai tempi della scuola materna, le maestre ci incitavano a colorare restando dentro ai bordi, ad incorniciare i quaderni con elementi floreali e a sviluppare la nostra manualità attraverso i cosiddetti lavoretti. Una costrizione artistica che la mia mente da scolara ribelle non accettava, neanche quando, anni più tardi, la moda dell’Art Attack di Giovanni Muciaccia imperava in qualsiasi attività extracurriculare.
Per fortuna, poi, la vita ha fatto le sue evoluzioni e la mia creatività ha iniziato a vagare verso altri lidi. L’unico accenno di boa salvifica che ricordi di quegli anni, era mia nonna. La quale, a differenza di tutti i parenti ben collaudati a prefigurarmi un futuro da Tamara De Lempicka, mi lasciava libera di giocare in giardino anche in inverno, per costruire elaborati dolmen per le formiche. Come ogni concessione di libertà, anche in questo caso c’era un però: aiutarla a sbucciare le noci per l’oresgnaza, perché quelle già sgusciate le xe fiape e no le sa de niente.
All’epoca non mi facevo troppe domande in merito alla funzionalità delle noci e al significato di quel termine tanto strano quanto altisonante, oresgnaza. Avevo però iniziato a capire alcune cose: si trattava di un dolce, l’odore che usciva dal forno era indubbio, la preparazione era articolata e laboriosa, parliamo di almeno 4 giorni tra impasto e lievitazione; e doveva essere un dolce intimo, per come nonna lo accarezzava mentre riposava sotto al canovaccio. La mia egoistica innocenza infantile non poteva comprendere che quella era la madeleine che la riportava alla sua città natale, la terra istriana dalla quale se ne era dovuta andare troppo presto e senza possibilità di scelta. L’oresgnaza, come poi ho capito, è un dolce tipico natalizio della cucina istriana, in particolare di Fiume (l’odierna Rijeka), fatto di pasta lievitata arrotolata su se stessa ripiena di noci. Da qui, la derivazione dal termine croato oreg, ovvero noci.
Assieme ad altri piatti tipici come la jota, la zuppa de bobici, el brodetto e el struccolo de pomi, l'oresgnaza fa parte della tradizione culinaria istriana e dalmata, sopravvissuta negli anni e giunta a noi grazie ai ricordi dei 300mila esuli italiani scappati dalle foibe e dalle violenze titine nel secondo dopoguerra. Un patrimonio culturale e gastronomico da tenere stretto e da accarezzare spesso, delicatamente, come faceva nonna sotto al canovaccio.
La ricetta dell'oresgnaza richiede pazienza e costanza, il segreto sta nella lievitazione: lenta e ripetuta, per rendere la pasta leggera e facilmente digeribile. Un iter che esige tempo ed energie, e che a causa della sua lunga preparazione, è capace di anticipare le festività natalizie già a metà dicembre. Negli anni le tendenze gastronomiche si evolvono, le mode generazioni modificano i palati, ma se ci si ferma un attimo, si riesce ancora ad assaporare la tradizione della tipicità.
In Istria e in gran parte del Friuli Venezia Giulia, in particolare nel capoluogo giuliano, si trovano oggi delle varianti più o meno fedeli alla ricetta tradizionale fiumana dell’oresgnaza, che portano anch’essi nomi di chiara derivazione slava, come putizza, presnitz, dolci arrotolati che si differenziano tra loro per la lievitazione, la ricchezza del ripieno e la forma. E che per la loro consistenza particolarmente calorica, solitamente si accompagnano con un bon bicer de vin bianco o un grappin. Sono ricordi commestibili di una cultura a tratti dimenticata a causa della globalizzazione culinaria e dagli interessi del consumismo moderno. Ogni tanto si farebbe bene a prendersi del tempo, per riavvicinarsi alle proprie origini e tornare alle radici della cose. Magari proprio davanti ad un tavola imbandita di madeleine.
(Foto per gentile concessione dell'autrice)