La cerimonia del tè e della vita
Il tè nella cultura contemporanea occidentale (con delle rare eccezioni parigine), per tutto il '900, almeno fino all'inizio degli anni Ottanta, è stato appannaggio della cultura britannica della bustina, della scelta tra latte e limone e di un colonialismo fatto di compagnie delle Indie, di scontri anglo-olandesi sulle rotte, di cultura borghese dei caffè e delle tearoom in sostituzione della cultura aristocratica delle spezie ma soprattutto della chiusura al mondo della Cina per quasi un secolo.
Nel mentre, il Giappone e il suo isolazionismo hanno perfezionato all’estremo la prammatica del tè fatta di riti e gesti come ennesima forma culturale introiettata (questa volta dalla Cina) e resa straordinaria, unica e rarefatta.
In Giappone l’espressione di una rappresentazione socio-culturale si vede dalle radici e dalla sua bellezza: le piantagioni di tè di Uji, Wazuka o Shizuoka sono nell’immaginario del Paese, fanno parte della sua comunicazione al mondo. E continua nella scelta dei materiali, delle tazze, delle finezze percettive degli spessori, dei disegni o delle monocromie, la forma del contenitore è importante quanto il contenuto. Il significato del tè per un giapponese non riesco a comprenderlo né a fondo né in superficie, ma attraverso il mio desiderio di conquista (che poi è quello di ogni turista che si pensa esploratore, a cui si schiude tutto un mondo di significati ed esperienze “vere” che penserà di fare solo lui) e attraverso la comprensione di alcuni snodi fondamentali grazie alla tea master Barbara Sighieri (La Teiera Eclettica), ho provato a spostarmi tra il classico e il contemporaneo, dedicandomi al loro mondo da gastronomo e non da nerd della foglia ossidata.
La cerimonia classica del tè è un’esperienza che consiglio a tutti (magari a persone che han già fatto il passaggio Tè Lipton/tè in foglia), ma non è necessariamente un’esperienza sul tè, è una forma culturale, tra il reale e il posticcio, di gestualità, esotismo e maniera di intendere la vita. Nella contemporaneità di Tokyo invece si può fare un’esperienza, tra il kaiseki e l’autoriale, dove la parte gastronomica è molto più rilevante di quella ritual-romantica, dove il percorso all’interno del tè verde prevede scelte e non ataviche “imposizioni”. Sakurai è il bancone idealizzato da cui l’occidentale, esperendo un loro tempo intimo ma contemporaneo, si porta a casa un pezzo di verità sul Giappone, dove le parole e le fotografie sono ancora un rumore di fondo leggermente fastidioso.
Ci si siede attorno a un tavolo con 8 posti, si iniziano ad osservare i gesti, ad ascoltare il rumore dell’acqua corrente, a soffermarsi sui particolari di pietra e ceramica tutt’intorno. Il maestro lascia spazio agli allievi nella preparazione del tè e in quel momento si può decidere cosa ordinare. In maniera quasi controintuitiva, lo si fa con il loro tè più pregiato, il Gyokuro, le cui foglie prima di essere raccolte passano alcune settimane all’ombra per concentrare il senso della cultura giapponese: l’umami. Così appaiono, insieme a tutto il classico bouquet aromatico “verde” dei tè a cui viene bloccata l’ossidazione attraverso il vapore, sentori di alga, incenso e glutammato (teanina) persistente.
Tre concentrazioni e tempi di Gyokuro. La prima infusione è al limite del paradossale, è una sferzata sapida straordinaria mai provata alle nostre latitudini. La seconda, più breve, è rallentata e allentata, il palato si dissuade dalla morsa glutammica. L’ultima è un’infusione a freddo con ghiaccio, foglie di pepe sansho e bucce di agrumi. Prima di scomparire, arrivano le foglie cotte da mangiare con una salsa ponzu.
Passaggio dolce con fagioli azuki e castagne conservate e poi via verso uno dei loro tè più peculiari: un hojicha tostato al momento da scegliere tra sei diverse varietà. Il processo di tostatura sprigiona note nutty e di memoria del gusto, appiattisce un po’ le differenze tra le diverse cultivar e porta fuori più il fumo del legno, donando possibilità gastronomiche pressoché infinite: la loro scelta ricade su degli tsukemono con una leggera piccantezza.
Il finale è riservato al classicismo del Matcha, cotto al vapore come il Gyokuro e in seguito polverizzato. Qui Sakurai raggiunge apici inesplorati: polvere leggendaria con amarotici aromatici e lunghissime note di violetta cristallizzata.
4 wagashi (dolcetti tipici della cerimonia) a completare, saluti algidi, un ultimo sguardo imperturbabile agli oggetti, maniere fondamentali nella costruzione di un’esperienza del genere, e mi congedo riflettendo sul futuro della cucina e sul significato di fine dining.
Questa esperienza è alta gastronomia, anzi è uno squarcio e una possibilità di futuro che mi auguro, all’interno della palingenesi della cucina, sarà sempre più relazionale, più di fronte e meno di spalle, meno tossica, meno numerosa, meno enorme, meno spettacolarizzante, più lenta, più diretta, più presente, più cucinata, più calda, più libera e pensante…