L'eredità di un ex panificio: è il forno il cuore di Silvano

AA004 Vladimiro Poma © Vittorio Bongiorno
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La gratitudine non è solo la più grande delle virtù, ma la madre di tutte le altre, diceva Marco Tullio Cicerone.

Insomma, la gratitudine è il segno delle anime nobili, una delle cose più semplici ma allo stesso tempo più potenti che gli esseri umani possono fare gli uni per gli altri.

Per me Vladimiro Poma è un’anima nobile, e per me è stato una grande scoperta. Anche io gli voglio dire grazie, per come mi ha accolto e per tutte le ore già passate assieme e per quelle che spero potrò ancora passare a casa sua, da Silvano Vini e Cibi, un via vai di energia, di bellezza e di successo nel cuore di Nolo.

Parlo di gratitudine perché la prima cosa che Vladimiro ha tenuto a dirmi quando gli ho annunciato che Tuorlo Magazine avrebbe voluto scrivere, a firma di Francesca Romana Mezzadri, un pezzo sul suo locale, si è fermato guardandomi negli occhi e mi ha detto, emozionato e con il cuore in mano: “Ogni tanto facciamo fatica a dirlo, ma volevo dire ‘grazie’ e ‘ti voglio bene’ a Cesare Battisti - fondatore del Ratanà e oggi considerato uno dei cuochi più rappresentativi della cucina di tradizione rivisitata e di qualità a Milano -. Nella mia vita professionale è stato cruciale e ha sempre creduto in me, dimostrandomelo. Spero di aver ricambiato questa fiducia, dimostrandogliela a mia volta. Mi ha sempre dato un’occasione per esprimermi, prima al Ratanà, poi come sous chef all’Erba Brusca con Alice Delcourt, poi quando ho voluto fare un’esperienza in Perù da Gastòn Acurio ha alzato il telefono e mi ha aiutato a realizzare il mio sogno, e poi di nuovo al Ratanà, dove poi è nata l’idea di Silvano. Grazie, Cesare”.

Mirco Mastrorosa

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Silvano Vini e Cibi Oct 17

È Silvano, sottotitolo “Vini e cibi al banco”, il nuovo place to be a Nolo, quartiere milanese esploso negli ultimi anni per la sua movida rilassata, per alcuni ammantata di un hype fin eccessivo, ma ben incarnata dal locale insediato in un ex fornaio d’angolo. Chiariamo subito: dietro al successo di questa nuova apertura non c’è nessun Silvano, ma Vladimiro, che di cognome fa Poma. Vallo a spiegare al giovincello in prova in cucina che, finito il turno, zainetto in spalla, saluta compìto:

“A domani signor Silvano”. “Vladimiro”, fa lui di rimando, poco convinto.

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L’insegna intitolata all’iconica canzone di Enzo Jannacci evoca un mondo preciso. Quello del bar d’antan, dove entri e ti senti a casa. Dove chi ti propone un piatto, o un vino (Martina Peron), sa cosa ti piace. Dove i tavolini sono piccini, uno diverso dall’altro, ma non manca il tavolone conviviale da condividere con avventori sconosciuti, e facilmente alla fine si fa comunella. Più ambito sedersi al bancone, presidiato da Poma cinque sere su sette, sabato e domenica già da mezzogiorno.

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La nostra intervista non parte da qui, ma dal vicino mercato coperto di viale Monza, appuntamento alla macelleria equina dove Vladimiro sta annusando un taglio di asino da far brasato. La carne rossa, il grasso candido che una “sciura” (milanese per signora) vorrebbe portarsi a casa per ingrassare la sacca da golf. Il quartiere è così: pop e snob, melting pot e vecchia Milano, per i detrattori sulla via della peggior gentrificazione, per gli estimatori realtà in vivace fermento.

Una mescolanza ben intercettata dalla proposta enogastronomica di Silvano. Nella vetrina da pizzicagnolo che interrompe la continuità del bancone in acciaio (disegnato da Cesare Battisti, socio e partner in crime del progetto) stanno in bella mostra gli ortaggi sott’aceto, le uova, i salumi, le carni fredde, le lasagne pronte da scaldare. Una cucina sincera e concreta, da osteria di paese, con una particolarità che la rende sicuramente un unicum: tutto ciò che è cotto non arriva dai fuochi, ma dai forni rimasti dal vecchio panificio.

“La cucina doveva esserci, ma a poche settimane dall’apertura abbiamo scoperto che non si poteva mettere perché la cappa era troppo stretta”.
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Vladimiro, che aveva già ideato una sua linea di piatti, si è trovato a rivoluzionare le cotture per adattarle ai mezzi che avrebbe avuto a disposizione: i forni, appunto, e giusto una piastra per bollire le uova.

“Ho dovuto rimparare a cucinare. Con il forno i tempi si dilatano, e non stiamo parlando di apparecchi ad alta prestazione. Non ho sonde, temperature precise, solo la mia sensibilità. Quella che la tecnologia ti leva, e finisce che è tutto standardizzato”. Capacità di adattamento e padronanza del mestiere sono stati assi nella manica, insieme a una formazione con tanta, tanta, tanta gavetta. Ripercorrere la sua storia di cuoco dà un senso inatteso a piatti e piattini che, dietro a un’apparente semplicità, nascondono esperienza e maestria da vendere.

Nato a Bordighera, ma cresciuto nelle case popolari di San Siro in una famiglia di hippy leoncavallini (dallo storico centro sociale Leoncavallo), rientra in Liguria ancora bambino, in un paesino dell’entroterra con 64 anime e una bottega, dove mamma è un fenomeno nel cucinare focacce, pizze, sardenaire e torte verdi.

Quando famiglia e attività si spostano a Imperia, il 14enne Vladimiro inizia come lavapiatti e aiuto pizzaiolo: “Erano i fantastici anni Novanta, il primo stipendio un milione e duecentomila lire, preferivo lavorare che andare all’alberghiero che allora, più che una scuola, era un riformatorio”. Mollati gli studi a un passo dal diploma (“Ho sempre avuto problemi con le regole”), sceglie lavoro e indipendenza, anche economica. “Finché a un certo punto mi rompo le palle (sic!), la provincia comincia a starmi non stretta, strettissima. Scappo a Milano e raggiungo mia sorella Caterina (oggi socia di Battisti al ristorante Ratanà, ndr), che era già tornata da qualche anno nella casa dove eravamo cresciuti”.

Cominciano gli impieghi come extra proprio al Ratanà e all’Osteria Crespi, allora gestita da Davide Atomo Tinelli, uno dei primi writer anni Ottanta e amico di famiglia. La svolta con la nomina a sous chef di Alice Delcourt a Erba Brusca, da cui riconosce di aver preso tutto quello che sa: “Per me è un grande vanto che a insegnarmi a cucinare, dopo mia madre, sia stata un’altra donna, le femmine nutrono, gli uomini no. Gli uomini hanno sempre ‘sta cosa dell’ego e alla fine ti trovi a mangiare l’ego del cuoco”. In tre anni al fianco di Delcourt, di solida formazione francese, acquisisce tecniche, rispetto per la materia prima e quell’immediatezza che si riscontra nei suoi piatti. Pochi fronzoli e tanta sostanza.

Vladimiro l’irrequieto ancora non è capace di restare fermo a lungo. Durante una lezione di Davide Scabin sul futuro della cucina, viene folgorato da un’affermazione dello chef torinese: “Vedrete, adesso arriva il Perù”. Scopre Gastón Acurio, primo latinoamericano a entrare nei 50Best, e riesce ad avere un gancio tramite Carlin Petrini di Slow Food. Parte per il Perù convinto che Lima sia in montagna e approda nelle cucine di Casa Moreyra, appena aperta da Acurio insieme a Ferran Adrià e Telefonica.

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Indimenticabile l’accoglienza all’ultimo arrivato: “Il primo lavoro che mi assegnarono fu pulire due casse di piccantissimi peperoncini Aji Limo. Avevo due paia sovrapposte di guanti che si scioglievano. Ma l’ho fatto senza fiatare”. Iniziando da commis, poi capopartita dei caldi, in cucina dalle 8 del mattino alle 2 di notte, fa uscire qualcosa come 420 piatti a turno. Prevedibilmente, la cucina molecolare in salsa peruviana, dove “tagliavano la trota con il righello”, lo stufa nel giro di sei mesi ma rimane comunque nel paese sudamericano, tra consulenze per la ristorazione e l’industria. “Mentre lavoravo per gli altri, pensavo a quello che mi sarebbe piaciuto tornare a cucinare. Pensavo ai piatti, li immaginavo, li scrivevo anche, per non dimenticarli”. Questo fino alla decisione di concedersi una pausa, una stagione in Italia, a riprendere fiato e ricentrare le idee. Quando atterra a Milano è il 24 dicembre 2019.

È l’estate dell’annus horribilis del Covid ad aprire, inaspettatamente, nuove prospettive. Chiamato da alcuni amici, titolari di un lido a Imperia, a dare una scossa a una stagione difficile, si ritrova in un chioschetto minuscolo: un bollitore, un frigo, due fuochi. Si fa comprare un abbattitore e costruisce un menu di solo pesce del Golfo, servito sui tavoli di plastica dell’Algida, bruttarelli ma sempre prenotati. Ogni giorno pulisce e cucina da solo 60 chili di acciughe, sgombri, palamite, gronghi, gamberi rosa, frutti di mare. Salvando lo stabilimento in un periodo difficile, tra distanziamenti e divieti: “Alla fine mi regalarono dei soldi: pensa, liguri che danno via il denaro!”

Richiamato da Battisti e dalla sorella Caterina, torna al Ratanà e, man mano che le cose rientrano nella normalità, iniziano a partire progetti. Il resto è storia, partita grazie all’intuizione di recuperare il concetto di vecchio “trani” (come si chiamavano a Milano le osterie alla buona, un tempo gestite da pugliesi): con l’aperitivo della casa, il toast, il bianchino corretto (lo “sprussà”), l’uovo. E la promessa che, questa volta, è qui per restare.

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Quel nome, Silvano, lo ha proposto lui e lo ha difeso strenuamente. Emblema di una Milano che forse non c’è più, ma potrebbe - dovrebbe? - ritornare. Alla domanda se vedrebbe Enzo Jannacci seduto al suo bancone, risponde che “dovrebbe venire quando siamo in chiusura, quando ci sono gli irriducibili, si beve e si fa ballotta” tra i primi clienti fissi e i colleghi del quartiere, Tine della pasticceria all’angolo, Teo del pub accanto. “Con loro ci è andata bene, perché potevamo trovare vicini rompiballe. Invece, se in una piazza apre un posto così, alla fine è positivo per tutti, no?”

Nonostante il clamore della prima ora, Vladimiro ritiene Silvano ancora in cerca della sua identità definitiva:

“Un locale è come una persona. Crea il suo carattere nel tempo e solo dopo comincia a correre. Il nostro è un bimbetto, è nato da poco. Adesso è pieno, ma non ha ancora davvero forgiato la sua anima. Ci vorrà un anno, un anno e mezzo per vedere davvero chi è”.

Per ora, una certezza: Silvano è Vladimiro.

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