Simon Rogan: Il Viaggio di un Seme

Incontriamo lo Chef inglese 3 stelle Michelin dietro a L’Enclume, tra valore umano, sostenibilità circolare e creatività.

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Si immagini come, distrattamente, per casualità, nel mezzo di una giornata rocambolesca ed affannosa, scossi dal fragore di suoni ed accadimenti urbani, immersi nell’ansia degli obiettivi lavorativi, marciando rapidamente per le strade piene di gas, si entri all’interno di un parco. La sensazione è quella di un cambio di temperatura, di un sollievo, di un respiro restituito, del profumo di mille piante e viventi diversi. Il fastidioso rumore si tramuta in dolce melodia di uccelli, dialoghi tra cani felici, voci e risate di bambini e ragazzi che hanno trovato un tesoro, una fuga momentanea.

Simon Rogan, Chef e proprietario di molti ristoranti sparsi per il globo, ha trovato la propria meta a Cartmel, in Cumbria, regione remota del nord dell’Inghilterra. Al suo L’Enclume, tre stelle e stella verde Michelin, racconta di natura, di bellezza, di spontaneità e di sensazioni.

Con Rogan abbiamo parlato di tutto il suo universo, di ambiente, di squadra e di sostenibilità umana.

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Come hai iniziato a cucinare? Cosa provi, oggi, ad indossare la giacca bianca?

È stata una strada lunga e tortuosa, quella che mi ha indirizzato qua.

Mio padre, essendo fruttivendolo, portava spesso dei bellissimi prodotti a casa, ma non sapevamo cosa farne esattamente. Così io, da ragazzino, imparavo a cucinare quegli ingredienti fantastici per la famiglia. Avevo come una sorta di fuoco dentro di me, un’innata propensione a lavorare la materia prima. Col passare degli anni decisi di studiare cucina e di lavorare presso un ristorante della zona: amavo il ritmo, la professionalità, il caos controllato.

A scuola capii quanto, pur sapendo, fossi ad un livello molto basso rispetto ai miei compagni, e questo mi spinse ad evolvere ogni giorno, sognando di diventare il cuoco migliore che potessi mai essere. Spingersi oltre, mutare in una versione più completa di se stessi rispetto al giorno precedente: questo ha permesso di ottenere tutto ciò di cui vado oggi fiero; bisogna saper indagare la propria persona, quello è forse il più grande ostacolo.

Tutt’ora, quella giacca bianca, mi dona carica per affrontare la giornata. È come una sorta di vestizione rituale, simbolica o, se vogliamo, un mantello da supereroe che permette di realizzare cose complesse quotidianamente, di andare in scena.

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Qual’è la parte più bella del tuo lavoro?

Sicuramente il valore umano: entrare al mattino e lavorare a fianco di colleghi stupendi, che diventano come una famiglia, creando esperienze e mettendoci al servizio di altre persone, a loro volta impazienti di essere sorprese e passare delle ore indimenticabili.

Questo mestiere ha dei lati magici dei quali mi innamoro continuamente. Siamo come dei messaggeri, dei mediatori tra una natura sconosciuta e degli ospiti che desiderano esserne travolti. Tutto ruota intorno all’uomo, alla profonda relazione di intenti, alla capacità di comunicare offrendo creatività.

Una routine giornaliera che può diventare molto pesante, se non aiutati da un team virtuoso e dinamico, col quale ridere e piangere, condividendo successi e ripartendo fallimenti. Un gruppo unito che permette di mantenere visione, alto livello e coerenza, grazie alla fiducia ed alla certezza delle qualità di ogni singolo individuo. Dovremmo capire quanto la nostra fortuna sia fatta anche dal prossimo.

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Come funziona il tuo processo creativo?

Parte tutto dalla nostra fattoria, “Our Farm”, che ci garantisce un prodotto fantastico. Ed è proprio l’ingrediente che ispira lo sviluppo delle ricette, è la naturalità a guidare la ricerca. Chiaramente la tecnica viene applicata, ma al solo fine di esaltare incisivamente i sapori puri della materia viva.

Vogliamo comunicare la piacevole brutalità gustativa dell’ “appena raccolto”, del vero, del coltivato eticamente, lontano dalla chimica; vogliamo condividere la bellezza della stagionalità e della biodiversità; vogliamo trasmettere la qualità della nostra vita in questa regione magnifica, opposta alle dinamiche distruttive delle metropoli, a dimensione naturale, spiritualmente vibrante.

Il concetto dell’essere locale va oltre la necessità di limitare al massimo gli sprechi energetici di inutili trasporti, e permette ai commensali di mangiare un territorio ovunque si trovino, di avere una fotografia spazio-temporale unica ed irripetibile. Qui ed ora.

Si pensi, ad esempio, al tartufo che noi usiamo all’Enclume: abbiamo ricercato i tartufi più pregiati da ogni parte del mondo, per poi capire che non saremmo stati coerenti a noi stessi. Abbiamo scelto di utilizzare un’ottima varietà di tartufo gallese, sorprendentemente interessante. È il fare di necessità virtù, è la costruzione di un mondo di tanti ristoranti di prossimità, spostandosi senza mai annoiarsi, viaggiando e degustando ogni piccola parte di mondo nelle sue sfaccettature più intime e peculiari, cogliendone le inevitabili mutazioni.

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Hai citato il progetto “Our Farm”. Potresti dirci di più?

La fattoria “Our Farm” è il nucleo di ogni nostra attività e pensiero. È il cuore del nostro corpo, che scandisce la musicalità della cucina e ci fornisce i miracoli coi quali nutriamo e ci nutriamo quotidianamente. Fa cogliere la poeticità di stringere un seme tra le mani e percepirne l’ancora inespressa forza dirompente, che trasformerà quel piccolissimo principio primo in un prodotto, che poi si farà ingrediente e da grande diventerà piatto.

L’avere la libertà di far crescere ciò che vogliamo ed averlo disponibile ad ogni servizio, in tutta la sua possibile freschezza ed integrità, è impagabile.

Di fatto, per me, la sostenibilità è da sempre parte integrante e dunque normale della vita: l’ho perduta solamente durante i periodi di stage presso ristoranti importanti in grosse città. Perciò ho deciso di spostarmi qua, necessitavo di una boccata d’aria fresca, di ritrovare quel desiderio di cibo onesto e diretto che sentivo da piccolo quando cucinavo per i miei genitori.

Inoltre, ogni scarto organico del ristorante viene usato come compost, andando a chiudere quel cerchio verde che ci rende felici e decisamente meno impattanti nei confronti dell’ambiente.

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Quest’anno L’Enclume è stato insignito della terza stella Michelin. Come hanno impattato questi ultimi mesi sulla tua vita? Qual’è il tuo sogno personale, da ora in poi?

Sono stato travolto da un’onda enorme di impegni, richieste di interviste, inviti. Il ristorante è diventato meta sempre più desiderata e la responsabilità si fa sentire. Tuttavia la percepisco come un’ansia positiva, derivante dal coronamento di un obiettivo importante, dal riconoscimento di un lavoro complesso.

Professionalmente siamo maturati, abbiamo evoluto la nostra offerta e l’organizzazione interna. Personalmente, mi sono trovato ad essere affiancato a coloro che consideravo esempi, eroi, idoli. Mi fa sentire grato, fortunato, ma anche orgoglioso di fare parte di questo piccolo gruppo di cuochi.

Quando un giorno, infine, appenderò il grembiule, vorrei essere ricordato come un uomo che ha cambiato qualcosa, che ha creato del nuovo, delle diversità, che ha avuto un impatto sulle generazioni successive o che, comunque, abbia ispirato giovani lavoratori a cucinare in un certo modo. Mi piacerebbe poter dire di aver fatto la differenza e di avere contribuito, anche in piccola parte, a trasformare il mondo in positivo.

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Come si dovrebbe reagire ai metodi produttivi attuali?

Credo che il mestiere del cuoco, a qualsiasi livello venga svolto, comprenda una responsabilità intrinseca, parallela a quella del cucinare in modo sano e rispettoso del cliente, ovvero quella legata al dover solennemente guidare le persone nelle scelte. Non tutti sono a conoscenza delle gravi problematiche della catena produttiva o della pericolosità di alcuni degli ingredienti più amati dai consumatori. Sta agli addetti ai lavori proporre menu biodiversi, far capire l’importanza del “farm to table”, al di là di slogan e battaglie pubblicitarie.

Risulta chiaro come il mondo necessiti di un cambio di rotta verso l’acquisto di prodotti naturali, magari direttamente forniti da contadini veri o da piccoli rivenditori, evitando la grande distribuzione. Basterebbe voler vedere come l’industria, per costituzione, proponga alimenti altamente impattanti, siano essi animali o vegetali: una verdura, di fatto, può impattare quanto una carne, dipende da dove e come sono state entrambe prodotte.

Sarebbe ottimale verificare sempre la provenienza e l’azienda produttrice, capendo l’eventuale insostenibilità e la presenza di veleni chimici. Quest’ultima in realtà, oltre a compromettere la salute di chi consuma, distrugge anche ecosistemi interi, danneggiando permanentemente, a cascata, paesaggi e vivibilità dei luoghi.

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Come affrontare, invece, la sostenibilità umana?

Purtroppo, ad oggi, questo tipo di sostenibilità passa attraverso un’alta disponibilità di fondi. Noi abbiamo la fortuna di poter assicurare turni e settimane brevi, lasciando molto spazio alle vite private, passando logicamente per l’aiuto di clienti che pagano un conto adeguato all’etica del luogo. Ad ogni modo la ristorazione è cambiata molto rispetto ai miei inizi, ma credo che il segreto risolutivo risieda nell’abilità di creare coesione.

Se anche il lavoro è leggermente più duro, si può tramutarlo in ore di apprendimento positivo e scambio di parole, di sentimenti. Si può affrontare la giornata con uno spirito collaborativo al servizio di una visione comune, con rispetto, divertimento e dedizione verso i colleghi.

Alla fine abbiamo bisogno di riconoscimento, di dignità. Emotivi ed economici. Non importa creare condizioni utopistiche, piuttosto virare verso una sana empatia.

La catena umana, il gioco di squadra, sono sempre stati sinonimo di risultati sorprendenti. La potenzialità dell’essere umano in solitaria è straordinaria, ma impallidisce d’innanzi alla quasi indomabile solidità collettiva.

Simon Rogan ha saputo abbracciare tante persone all’interno del proprio microcosmo, costruendo oltre l’immaginabile ed arrivando a traguardi straordinari. E così noi tutti, in quello che forse potrebbe essere il più grandioso atto collettivo della storia, ci vediamo uniti in una lotta smisurata contro le nostre stesse azioni, contro il nostro stesso essere-umani. Contro i nostri vizi, la nostra noncuranza, la lunga indifferenza. E allora perché non pensare ad un’idea di ristorante come specchio geo-temporale, dove le tecniche ed i saperi sono condivisi, ma gli ingredienti strettamente locali? Perché non spalleggiare i piccoli produttori vicini, ormai ad una ricerca online di distanza? L’Enclume ci ricorda come la volontà è spesso potere, come forse sia ancora possibile tornare indietro e correggere gli errori. Perché molto dipende ancora da noi, basta soltanto accettarlo. Perché forse non possiamo fare altro che tentare o lasciar andare. Ma chi, alla fine, non ha voglia di provare?

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