Questo è il piatto più bistrattato, temuto, significativo della cucina piemontese

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Sono tantissimi i piatti di cui si può dire che non sono soltanto cibo. Spesso raccontano la società, la cultura passata, quella attuale, le storie personali; ad un’attenta analisi possono svelare addirittura indizi sul cambiamento climatico, sulle migrazioni e non ci si stupirebbe troppo se qualcuno affermasse che un determinato piatto sia la prova ontologica dell’esistenza di Dio. Eppure non posso sottrarmi a questi parallelismi quando si parla di bagna cauda, il piatto più bistrattato della cucina piemontese, il più temuto, ma anche uno dei più significativi. Immaginate l’inverno del Piemonte, quello grigio, di freddo appiccicoso e senza neve. Poi pensate di aprire la porta di una cucina e rilasciare tutto il calore di generazioni che si avvicendano ai fornelli, di candele che scaldano la terracotta e tutto l’odore di tutto l’aglio che avete mangiato nella vostra vita. Vi si inumidiscono un po’ gli occhi e non sapete se è l’emozione o il pizzicore dell’aglio. Ecco, stiamo parlando di questo.

È un piatto di formazione. Quando da bambini ci si trova ad una cena in casa a tema bagna cauda, si sa benissimo che ci saranno infinite prove da superare. La prima è la vicinanza di tutti i parenti, accalorati dalla rarità dell’evento, dal vino e dalle candeline che scaldano i fujot (i tegami di terracotta fatti apposta per ospitare una candelina che mantenga appunto la bagna calda), cosa che porta a sviluppare presto l’abilità nel tenere d’occhio la fiamma in modo che non si spenga ma che, neppure, faccia sobbollire troppo l’intingolo. Inoltre, sebbene in teoria a ciascuno sarebbe riservato un fujot in cui inzuppare i propri bocconi di verdura, il bambino sa che dovrà dividerlo con qualcuno e che, quindi, dovrà essere il più scaltro e nutrirsi laddove l’adulto si sofferma a bere il vino o si attarda a decantare le differenze di adesione della salsa sul peperone crudo rispetto a quello cotto.

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Giulia Grimaldi

Poi c’è la montagna di verdure: crude, cotte, croccanti o morbide, bollite o al forno. Quello che per gli amanti dei vegetali è un tripudio della natura, un’opera barocca di nervature, bucce e colori, per i gusti ancora limitati degli adolescenti è una prova che si perde quasi sempre: impossibile dire “non mi piace” e poi scegliere un ortaggio, perché schierati in vassoi e piatti da portata ci sarà sempre un’alternativa, dall’originale cardo gobbo di Nizza Monferrato, ai peperoni al forno, ai topinambour crudi alle sempreverdi patate bollite. Ed è proprio forse qui che il ragazzino piemontese capisce, già in giovane età, che non ha senso ribellarsi alla bagna cauda, ma è meglio abbracciarne i forti aromi e le inevitabili conseguenze, nel nome di quell’atto comunitario che è la cena.

A quel punto inizierà ad apprezzare anche i porri di Cervere, conservati sotto la sabbia fino a quel momento per mantenerne il candore, la cipolla bollita pronta a sfaldarsi in un abbraccio di bagna o le foglie di cavolo crudo che fanno da cucchiaio e, contro ogni etichetta, raccolgono abbondanti porzioni di salsa, ignare di chi dice che il surplus vada conservato per condirci i tajarin.

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Lode e gloria alla nonna di Giulia, regina della bagna cauda.

Certo poi c’è l’ostacolo più grande, che è il punto in cui le storie di formazione dei singoli vanno a convergere con lo scherno con cui la società continua a tenere la bagna cauda lontana dalle tavole più pregiate: la puzza. Sì, forse a questo punto dovrei specificare che questo piatto è una salsa con cui si dà gusto alle verdure e che nasce dalla disintegrazione di aglio e acciughe nell’olio. Piuttosto semplice. Nelle sue versioni più raffinate (o eretiche) l’aglio viene prima stemperato nel latte e talvolta si aggiunge del burro o della panna. Il risultato cambia, ma di poco, e serve più a creare schieramenti tra i fronti dell’esercito della ricetta originale e di quello riformista che a favorire la digestione. Il fatto che nel fiato resti traccia per qualche giorno di questo evento collettivo ha relegato negli anni la Cena con Bagna Cauda a un evento per pochi, possibilmente organizzato il venerdì sera per potersi auto-isolare durante il weekend. Ma è ora di dire basta. Dato che lo stesso riguardo non viene mantenuto per altri tipi di cene che si fondano sull’aglio come ingrediente sacro, dalla cucina asiatica che lo sminuzza in moltissime portate, alla pasta aglio olio e peperoncino regina della spaghettata di mezzanotte, al garlic bread che inaugura ogni pasto nei ristoranti italiani oltre confine, al tzaziki che non si rifiuta neppure a pranzo sotto il sol leone di una vacanza greca. Perché quindi la bagna cauda continua a spaventare gli animi?

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La storia qui torna a ricordarci che questo piatto racconta della povertà delle aree rurali del Piemonte, di quando l’intingolo era il modo più economico per stemperare un pochino di proteine animali, quelle dell’acciuga, e farle durare il più possibile mentre ci si riempiva lo stomaco di cavoli crudi e patate bollite. Certo affascina ora la narrazione che vede gli acciugai della Val Maira rientrare dal vicino confine francese con le gerle cariche di sale ricoperto di acciughe, ma la verità è che quel commercio era proibito, il sale un prodotto di contrabbando e le acciughe una mera copertura per introdurlo in Italia senza attirare l’attenzione dei finanzieri. C’era poco da essere orgogliosi, dunque di questo piatto che urlava povertà e persino un po’ di criminalità. Questo mi ha sempre fatto pensare che la vergogna del piemontese per la fiatella agliosa conservi memoria di un’onta più profonda, che fa sentire la neve sotto i piedi scalzi e fa borbottare la pancia per la mancanza di cibo attraverso ricordi lontani.

Certo non manca chi la celebra e ride della lettera scarlatta che il piatto porta con sé. Il Bagna Cauda Day, ad esempio è un bellissimo evento che porta questo piatto nei ristoranti del Piemonte e di tutto il mondo, giocando con i tabù e portando l’ironia laddove si annodava la vergogna. Risultato? La riscoperta di questa tradizione sociale soprattutto tra i più giovani, la valorizzazione delle tradizioni e persino la salvaguardia della lingua. La bagna cauda, infatti, ha un suo glossario tanto specifico quanto contadino: è preparata nel tegamino di terraglia, che prende il nome di padlòt poi mantenuto caldo sulla s-cionfetta (dal francese chaufette) un tempo piena di braci e sistemata in mezzo alla tavola, anche se negli ultimi decenni si sono diffusi i fujot. L’iniziativa, che è promossa dall’Associazione culturale Astigiani, ha inoltre un riscontro pratico e green: il ricavato contribuirà a finanziare la nascita del Bosco degli Astigiani sulle colline di Viatosto su un terreno di oltre 5 ettari.

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Eppure anche Sergio Miravalle, uno degli organizzatori del Bagna Cauda Day, ammette che i grandi ristoranti la trattano timidamente nella quotidianità, inserendola nel menu magari in forma rivisitata, alleggerita, rivoluzionata. Certo con un’attenzione maggiore agli ingredienti che, essendo pochi, richiedono un altissimo grado di cura, dalle acciughe “rosse di Spagna” a quelle siciliane di Sciacca o e le liguri di Camogli e delle Cinque Terre, all’olio che deve essere extravergine di oliva, preferibilmente ligure (straordinaria la bagna cauda fatta da novembre in avanti con mosto d’olio da olive appena frante). E anche per l’aglio la scelta è fondamentale: i più adatti sono quello di Caraglio e il ligure di Vessalico. Ma nonostante tutte questi riguardi, la bagna cauda continua a puzzare. Ecco perché ho chiesto direttamente a Matteo Baronetto, chef del ristorante stellato Del Cambio di Torino e autore del nuovo libro Cucina Piemontese Contemporanea (EDT), se non sia arrivato il momento di lasciare alla bagna cauda un posto di riguardo anche sulle tavole più raffinate. Pare di no. Per lo meno non in modo assoluto, e non fino a che non saranno gli avventori a richiederla.

Anche questo fa parte della formazione dei giovani piemontesi di campagna, che hanno ormai imparato a non vergognarsi della tradizione e non vedono l’ora di ricevere l’invito a casa della nonna per godere dell’unica ricetta originale. Sempre diversa, ma autentica nei gesti che si ripetono, nel vino che scioglie le conversazioni e macchia le tovaglie fregandosene della ricerca di chi, in altre cucine, lavora su come isolare e selezionare alcuni pezzi di storia da questa antica ricetta per poterle dare una dignità diversa e più universale, una forma che sia accessibile a tutti. Senza timori, anche il lunedì.

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