Il sacrosanto diritto di non festeggiare il Natale

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Milano, terra di tutti e di nessuno, di rigore gastronomico e libertà, del dovere dei pranzi canonizzati e del sacrosanto diritto a non festeggiare.

Milano, terra del Panettone (dove la diatriba su canditi e uvetta non ha senso di esistere). Terra di sfoglie ripiene e volatili pure, di arrosti, brodi e insalate dalla leggerezza pari a quella dell’uranio impoverito. Milano, terra che non ha dato i natali a Sant’Ambrogio ma lo ha voluto talmente tanto da farselo patrono e inaugurarci le feste del periodo natalizio. Milano, terra di tutti e di nessuno, di rigore gastronomico e libertà, del dovere dei pranzi canonizzati e del sacrosanto diritto a non festeggiare. In una città che lavora alacremente per cucirsi addosso i badge di diversità e inclusività, si nasconde (senza neanche poi così tanto impegno a restare oscuro) un variegato scenario di tradizioni festive che non aderiscono all’immaginario canonico della tradizione culinaria squisitamente locale. Il Natale oltre il cappone esiste, ed esiste nelle voci e nel vissuto di chi aderisce a religioni differenti dal cattolicesimo che definisce il calendario italiano, per cui il 25 dicembre ha la stessa valenza del 3 marzo; di chi proviene da culture – e di conseguenza, culture gastronomiche altrettanto disparate, e ancora di chi per il Natale nutre non tanto un’idiosincrasia che ha preso forma e copro nel personaggio del Grinch, quanto più un sentimento pari a quello di un elettrocardiogramma statico. Il nulla.

Come questo pot-pourri di ritualità e non-ritualità si rifletta immediatamente a tavola, ha un che di fenomenale. E siccome mettere il naso nelle tavole altrui è uno sport stimolante, abbiamo chiesto a Daniel di metterci in collegamento telefonico con Ester, sua madre. A prendere la chiamata è papà Zsalom, a cui sono seguiti un paio di lunghi minuti di silenzio rotto solo da qualche rumore secco – piedi in movimento e pentole posate su di un qualsiasi ripiano, principalmente. Ester è intenta a preparare una delle cene di Hanukkah, che nel 2021 cade dal 28 novembre al 6 dicembre. E questa in particolare non è una cena qualsiasi, bensì la sera di Shabbat, per cui «stasera friggiamo anche le gambe dei tavoli», commenta Daniel tra il sarcastico e il divertito. Secondo la tradizione sacra ebraica, Hanukkah è la festa delle luci o dei lumi, commemorativa del miracolo per cui lo scarso olio d’oliva destinato all’appena riconquistato Tempio di Gerusalemme, anziché durare una giornata appena, arrivò a illuminare la Menorà per ben otto giorni.

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Secondo la tradizione culinaria, Hanukkah è la festa del fritto.

Durante gli otto giorni di celebrazioni, è di rito portare a tavola qualcosa di fritto ogni singola sera –purché insomma vi sia olio. Ester si esibisce quindi in virtuosismi e avvitamenti carpiati di sufganiot e latkes che nemmeno Nadia Comaneci: i primi, dei bomboloni fritti ripieni di marmellata e cosparsi di zucchero a velo; le seconde, delle frittelle composte da patate e cipolle grattugiate, messe assieme dall’uovo e da quel severo ma giusto cucchiaio di fecola di patate o farina che fa da malta, a cui Ester aggiunge a volte delle zucchine per renderle verdi e più dolci. Al momento della chiamata, Ester fa anche menzione a qualcosa che suona come “panzerotti”. Sicuri di un’incomprensione, chiediamo di fare lo spelling del nome del fritto misterioso. «No no, ho detto proprio panzerotti», rassicura Ester. In fondo, sono lievitati fritti anche loro: non fa una grinza.

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Nel caso in cui Daniel e famiglia celebrassero anche il giorno di Natale, ci sarebbe da porsi il serio problema degli striminziti tempi tecnici di recupero per sgonfiare i fegati e la bolla di colesterolo. Ma è un’eventualità a loro lontana, che da ebrei ortodossi si limitano a ignorare la festività sul calendario e a rispettare i convenevoli elargendo cortesi auguri al mondo esterno – o almeno, quella fetta di mondo che il Natale lo celebra, arrivando a comprimersi come un buco nero prima in chiesa e poi intorno alla tavola. C’è quindi da chiedersi in che modo si intrattengano famiglie e comunità che non festeggiano il Natale, evitando la performance del brodo di carne e del bambinello nella mangiatoia.

Una delle immagini più comuni rasenti ormai lo stereotipo dell’ebreo newyorkese è uno sbracato 25 dicembre in pigiama, pantofole, film in televisione e wonton, noodles, ravioli e zuppe cinesi grondanti da innumerevoli confezioni di carta e alluminio rinforzate per l’asporto. La tradizione di mangiare cibo cinese il giorno di Natale, diffusasi tra gli ebrei americani, rimanda a quando le comunità ebree e cinesi erano le più numerose tra le non cristiane del Lower East Side di New York all’inizio dello scorso secolo. Un’assimilazione così curiosa derivò principalmente dalla necessità di procacciarsi del cibo in un momento in cui la ritualità alimentare assumeva una dimensione domestica, per cui le uniche attività aperte erano proprio di chi il Natale non lo celebrava –ovvero la comunità cinese. Inoltre, la cucina asiatica contava e conta tuttora una rassicurante assenza o scarsa presenza di prodotti a base di latte, così da garantire una certa aderenza alle regole della dieta kasher.

Ma non siamo nel Lower East Side né in un film di Woody Allen, per cui a casa di Ester e Zsalom non si vede l’ombra di salsa di soia – né mai si sono applicati a battezzare un piatto di rito per questo giorno di non-festa, che sia una pasta al pomodoro o una lasagna rinforzata. A dire il vero, proprio giorno di non-festa non è, perché (ironia della sorte) il 25 dicembre Daniel compie gli anni. Ecco quindi che un minimo di auguri sensati e sentiti, aggregazioni in sala da pranzo e lavastoviglie cariche di piatti sporchi spuntano comunque. Nulla a che vedere, in ogni caso, con la cornucopia dei fritti di Hanukkah, la profusione di olio e la relativa impossibilità di odorare di qualcosa di diverso fuorché di latkes appena estratti con la schiumarola. «A proposito Daniel, a che ora arrivi?», si appresta a chiudere Ester. «Io il fritto lo faccio solo all’ultimo momento.»

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