Cronache di un paziente anosmico e ageusico involontario

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La letteratura non avrebbe conosciuto il killer di Patrick Suskind, i pendolari l’ebrezza di viaggiare stretti su un treno in estate, i delusi l’opportunità di dire “mi ha lasciato l’amaro in bocca”, i bambini la forzatura di mangiare le verdure...

Il 23 novembre mi sono svegliato con un fastidioso dolore alla gola, ma capita spesso al lunedì dopo qualche ora passata nella foresta con Freddie, il mio bassotto a pelo lungo.

Freddie ha un’ottimo naso, come d’altronde tutti i suoi simili atti alla caccia. E lo utilizza per tutto. Per chiedere una carezza o aprire le porte... ok, ammetto che abbia le zampe corte. Gli odori gli trasmettono tranquillità, a volte timore, sicuramente lo incuriosiscono.

Ma torniamo ai sintomi.

Il 25 novembre ha fatto capolino il mal di testa. Persistente e localizzato nel lobo centrale. Mezza bottiglia di un buon Refosco è sufficiente a mandarmi a nanna. C’è qualcosa che non va.

Il 27 novembre è il giorno del test Covid. Nel frattempo a casa si consumano arance e si grattuggia zenzero che nemmeno un laboratorio di panettoni artigianali.

Il 28 novembre ordino una pizza: crema di zucca, gorgonzola e pancetta, una roba da far inorridire l’ortodossia vesuviana della pizza margherita. Qualche minuto dopo un messaggio fa capolino sullo schermo del cellulare “Your result Covid19 PCR: positive”. Ouch.

In “Harry a pezzi”, Woody Allen diceva “Le due parole che uno desidera di più sentirsi dire... "Ti amo"? Assolutamente no. "È benigno". Umorismo americano.

Un’ora dopo la pizza è a casa. Apro il cartone e penso: “Che buon odo...” Ah no, sa di... sa di caldo e basta. Come quando apri una pentola che bolle e la nuvola di vapore ti impedisce di percepire immediatamente gli odori.

Taglio una fetta. Crema di zucca, gorgonzola e pancetta. L’acquolina in bocca è normale. Sento già la dolcezza della zucca, il piccante del gorgonzola, il salato della pancetta. Il ricordo degli odori e dei sapori è la prima cosa che mangiamo. E l’idea di riassaporare quei ricordi è il secondo boccone.

Il terzo boccone, quello del ricongiungimento carnale, il momento in cui la bocca si abbandona inesorabilmente a quell’abbondare di carboidrati complessi, il nulla. Il nulla o quasi. Senti la potenza del sale attaccare la mucosa, la consistenza cremosa della zucca fare da calmante... ma i sapori? Assenti. O forse presenti come allucinazioni gustative. Sono lì (o forse no), tenui, vaghi, o sono solo il frutto della mente? Il sapore di qualcosa di cui si conosce o si immagina il sapore? E se quel sapore anestetizzato fosse solo l’idea di mangiare un ricordo?

La sentenza è chiara: anosmia e ageusia. L’alfa privativo “gourmand” del Covid. Il pedaggio emotivo dei sensi.

Ed allora mi interrogo su come sarebbe la gastronomia se non potessimo apprezzare sapori e odori. Cosa resterebbe del cibo che mangiamo?

Dopo poco il ricordo svanisce, lasciando spazio solo alle consistenze: il taglio degli ingredienti, l’untosità dei grassi, la viscosità delle salse, la morbidezza del dolce, la fibrosità degli ortaggi.

Probabilmente resterebbe il piacere della convivialità, la voglia di stare insieme attorno ad una tavola imbandita. Resterebbero le risate, il suono delle posate, le macchie di vino sulle tovaglie. Dico “probabilmente” perché è innegabile che essere privati del senso dell’olfatto e del gusto cambia la percezione del mondo circostante e del proprio posto in quel mondo.

Per chi come me scrive di gastronomia, il giornalismo gastronomico si trasformerebbe in giornalismo di cronaca: si darebbe più spazio a curricula, proprietà, impatti socio-economici e gossip. La critica invece verrebbe probabilmente relegata al cibo delle case di riposo, con giudizi che variano da “masticabile” a “na crema!”.

E se Instagram non l’avesse – purtroppo - già sdoganato, quale sarebbe il senso di un piatto il cui valore risiede solo nella sua estetica? Avrebbe senso mangiare un “bel” piatto?

Qualche anno fa, Joan Roca, chef del ristorante El Celler de Can Roca, dopo un’ora passata a parlare dell’universalità del “barrio” di Girona e di innovazione sostenibile, mi disse: “en el final, la cosa la mas importante es el gusto – alla fine, la cosa più importante è il gusto”. Il gusto.

Godiamocelo fin quando c’è!

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