Un pizzico di Noma a Veronetta
Una sensazione di intimità ti pervade appena si entra da Madres. Ma è la condivisione dell’esperienza a fare la differenza. La tua cena si unisce a quella del tuo vicino, che diventa tuo amico seduto con te al bancone che si affaccia direttamente sul piano di lavoro dello chef, che maneggia i suoi coltelli con la maestria di un samurai.
Dietro il progetto di Madres c’è Hakim Bensalah, chef di origine marocchina cresciuto in Italia e formatosi nel mondo intero, è il primo a portare nella città degli innamorati un nuovo idioma gastronomico: quello della fermentazione.
Hakim ti accompagna in un viaggio che tocca l’estremo oriente, il lontano Sud America e le colline veronesi. Se la prima sensazione che si prova entrando nel suo mondo è l’intimità, si esce da Madres con l'impressione di essere stati teletrasportati in un nuovo universo culinario, arrichiti da nuovi stimoli e una nuova memoria.
Da dove comincia il tuo viaggio in cucina, Hakim?
Porto con me tutte le tradizioni del Marocco, ma la mia prima formazione è veronese. Mi sono diplomato all’Istituto Angelo Berti e nei ristoranti della città mi sono messo alla prova le prime volte. Finita la scuola sono volato in Francia, poi sono tornato a Venezia. Qui ho avuto la fortuna di lavorare con Akio Fujita, all’epoca chef dell’hotel Aman sul Canal Grande, che sarebbe poi diventato il mio mentore. Poi, ho seguito Akio in giro per il Mondo: da Rio de Janeiro durante le Olimpiadi del 2016, alla Danimarca. Li ho avuto poi la possibilità di fare un’esperienza “life changing” al Noma di Copenaghen, La Mecca di tutti gli chef. Dopo la Danimarca, finalmente il Giappone, un sogno che inseguivo fin da piccolo. Lì ne ho approfittato per viaggiare e scoprire quanto più possibile sul cibo e sulla cultura del Sol Levante.
Ha iniziato lì a pensare a Madres?
Il progetto di Madres è nato nel 2016: non aveva ancora un nome e inizialmente doveva essere un laboratorio, o come si dice oggi, una ghost kitchen. Il progetto poi si è evoluto e ha preso la forma di un ristorante, che però mi piace definire anche come un laboratorio di idee e sperimentazioni.
Quando hai aperto?
Ho aperto il 23 dicembre 2021. Il locale l’avevo trovato l’estate prima, a luglio 2020, ma i lavori sono durati tanto perché eravamo in pieno lockdown; lo abbiamo ristrutturato da cima a fondo, con la supervisione dell’architetto veronese Andrea Gregoretti (che ha realizzato anche il design di Zushi). Volevo un bancone di 10 posti, niente di più, di legno, un ambiente minimal ma accogliente e luce puntuale - il cliente deve vedere cosa sta mangiando.
Da dicembre 2021, c’è stata un’evoluzione pazzesca. Quando abbiamo iniziato avevamo un’offerta per un target un po’ ambiguo, volevamo capire noi stessi la nostra clientela. Oggi la nostra proposta è principalmente di pesce e vegetale. E’ stata una selezione naturale e automatica. Chi viene qua non vuole sapere se c’è carne o pesce, si affida a noi. Da lì ho contattato tutti i migliori fornitori che conoscevo e con cui avevo collaborato, da Longino a Viviani di Verona e altri piccoli pescatori di Chioggia e Venezia, e contadini che hanno determinate cose, come le fragole acerbe che mettiamo in fermentazione lattica e serviamo con la ricciola, che maturano direttamente durante la fermentazione.
Definisci con 3 aggettivi la tua cucina
GLOCALE: sta a metà tra etnico e fusion, ma un fusion molto locale – che mi piace definire glocale – proprio perché prendiamo spunto dalla cucina giapponese, italiana, marocchina, spagnola e latino-americana
SPONTANEA: delle volte il piatto nasce spontaneamente, provando e riprovando, senza schemi
LENTA: nella fermentazione i tempi di maturazione sono lenti, quindi è una cucina lenta, volutamente lenta. La fermentazione richiede tempo.
Da cosa prendi ispirazione e qual è la tua idea di cucina?
L’idea che mi ispira è la cultura giapponese dell’omakase, che vuol dire lasciare allo chef la libertà di preparare per i commensali quello che vuole lui. Una scelta di grande fiducia, devo ammettere. Difficile da far capire alla clientela e farla entrare nell’ottica. Poi, guardo spesso quello che succede al Noma, all’Alchimist e tanti ristoranti giapponesi in modo molto curioso, per capire se può venire fuori qualcosa di più interessante da quel mondo li anche qui da me.
E’ stata una scelta drastica quella che ha voluto sacrificare sin dall’inizio il classico menù a la carte, perché spesso vincola a molte preparazioni e prodotti, richiedendo tante energie e risorse, ma soprattutto sprechi. Per servire ciò che davvero mi piace fare, per avere rispetto delle stagioni e delle materie prime, ma soprattutto per non dover rinunciare al laboratorio e alla sperimentazione, era proprio il menù che andava sacrificato. Non è stato capito da alcune generazioni. Vediamo però anche tanta curiosità in chi ci viene a trovare. Rassicuriamo tutti i clienti dicendo loro che i nostri piatti li porteranno in giro per il mondo, rimanendo a casa.
Come ti racconti nei tuoi piatti?
Mi racconto attraverso le mie intuizioni, prove su prove che derivano da un mix di cucine e culture, usando però tecniche giapponesi di preparazione e cottura che ho fatto mie, sempre con un approccio sostenibile della cucina. Alcune sperimentazioni come il pesce frollato, introdotto nel menù in modo arrogante e frollato direttamente da noi, oppure la thai omelette, dove utilizziamo le alghe come la spirulina, un vero e proprio super food; spesso modifico il menù sul momento in modo da poterlo declinare anche in modo totalmente vegetariano, che è diventata la regola. Pur usando carne o pesce, il 60% del menù è comunque vegetale e quindi è facile trasformarlo in 100% vegetariano.
Un occhio è sempre rivolto al palato dei clienti che ci vengono a trovare, per farli sentire a casa. Prendiamo ad esempio il Ramen, fatto con la gallina grisa della Lessinia, che abbiamo semplificato nelle sue componenti affinché si avvicinasse al contesto quotidiano nel quale Madres è inserito.
Sperimentazione, fermentazione, e poi?
E poi sono ispirato dalle stagioni e da quello che la natura ci offre in quel momento, siamo noi ad adattarci agli ingredienti disponibili e con quelli costruiamo un menù, mai il contrario. Apriamo 5 giorni a settimana e cambiamo giornalmente il menù, adottando questa scelta, riusciamo a ridurre, se non eliminare, gli sprechi. Al momento il menù si sviluppa con due proposte, una più semplice, con quattro portate, e una più articolata.
Perché aprire proprio nel quartiere di Veronetta?
È stata una scelta, l’unica scelta, perchè a Veronetta puoi fare davvero tutto ciò che vuoi. È un quartiere ribelle, come la nostra proposta. È un quartiere multiculturale, come la nostra proposta. E’ un quartiere libero da pregiudizi, come la nostra proposta. Solo qui poteva nascere Madres.
E il progetto originale del laboratorio?
L’idea c'è, guardiamo in questa direzione, anche se sul futuro, per scaramanzia, meglio sbilanciarsi troppo. Lo stiamo costruendo in uno spazio sul retro del ristorante. Sarà il regno delle nostre passioni, della nostra ricerca e curiosità, in primis nel campo della fermentazione. Abbiamo già iniziato con i garum al parmigiano e al tastasal, con la salsa di ceci, i diversi tipi di kombucha, il koji, un fungo giapponese fondamentale per fare il miso, la salsa di soia, e il sakè, che ci sta permettendo anche di eliminare lo zucchero. Molti colleghi ci chiedono i prodotti che facciamo, ma io la vedo un po’ come una febbre, una moda. Quando poi passa ti ritrovi con tutto l’occorrente e poi finisce la moda. Pensiamo comunque di sviluppare alcuni prodotti che possiamo vendere.
Sarà un’evoluzione strada facendo.
Perché Madres?
Madres è la madre, l’origine di tutto, da cui si trasforma il cibo, lo arricchisce, lo protegge. E poi perché io sono cresciuto con tante mamme, tra nonne, zie e sorelle. Nella cultura marocchina il concetto di madre è più ampio, si è figli di più madri, di chi ti cresce. Madres è poi un richiamo alla fermentazione: per fare ogni fermentato serve una madre, un’origine. Madre per noi è la simbiosi necessaria per trasformare gli elementi.