Nonostante celebrazione della giornata internazionale per i diritti della donna si possa far risalire fino agli inizi del 900, in Italia apparve per la prima volta nel 1922 e soltanto nel 1977 l'Assemblea generale delle Nazioni Unite le conferì il titolo internazionale di United Nations Day for Women's Rights and International Peace riconosciuto da molte nazioni con l’8 marzo. Questa ricorrenza spesso viene scambiata per una festa da celebrare e molte volte viene riconosciuta come quell’occasione straordinaria in cui si porta fuori a cena la mamma, la compagna, la moglie, così che, almeno quel giorno, non debba cucinare lei. In realtà l’8 marzo ha una finalità completamente diversa: è quella data scelta durante l’anno in cui si fa il punto della situazione, un momento in cui si esaminano traguardi e insuccessi sociali, politici ed economici che potrebbero avvicinarci o allontanarci dal raggiungere una parità di genere. In questo articolo proveremo proprio a fare questa analisi parlando di ristorazione attraverso un’indagine socioculturale della condizione della donna, facendoci guidare però dal ruolo che il cibo esercita su questa figura.
Quando si parla di genere si pensa spesso che sia un argomento che coinvolge soltanto le donne e che non riguardi nessun altro tipo di soggettività, ma non è così. Chiunque si deve impegnare affinché si possa raggiungere una vera parità. Questo sforzo collettivo, lo studio e l’analisi richiesti di questo tema in realtà sono necessari non soltanto perché ragionare su questo argomento è cosa “buona e giusta”, ma soprattutto perché conviene proprio a chiunque. Sono tante infatti le ricerche che dimostrano che i paesi più felici, come Danimarca, Svezia e Paesi Bassi, devono questo loro successo anche ai traguardi che hanno raggiunto circa la parità di genere. Tuttavia questo progresso non è così lineare come sembra, non progredisce necessariamente in maniera organica in ogni suo aspetto (economico, politico e sociale) e, quando questo non succede, genera degli strappi. In uno studio riportato sul Feminist Economist, Stevenson e Wolfers riportano come le donne in tutto il mondo occidentale, a partire dagli anni 70, periodo di grande emancipazione femminile, sono diventate progressivamente sempre più infelici.
La motivazione di questa infelicità la possiamo spiegare proprio con lo “strappo” di cui parlavamo prima. Se durante un processo che punta alla parità di genere cambiano i ruoli, ma non si analizza la storia e il pensiero che li ha creati, si ottiene solo un cambiamento parziale: non si sarà in grado di decostruire i propri stereotipi e quindi di abbatterli definitivamente. Se una donna oggi può diventare lavoratrice, ma le viene ricordato che comunque il suo ruolo è quello di madre o, addirittura, che deve essere perfetta in entrambi i ruoli, mentre all’uomo non viene richiesto lo stesso sforzo, è probabile che faccia più fatica ad essere felice.
Questa premessa è fondamentale perché ci prepara a capire meglio come stanno andando le cose oggi. Nonostante le donne sul lavoro siano state colpite duramente a causa della pandemia, la situazione è in lento ma solido miglioramento. Le nuove imprese registrate nel 2021 da donne sono 7000 in più rispetto a quelle registrate l’anno prima, anche se sempre meno di quelle del 2019, ma sembrano essere più solide e comunque in crescita. I settori in cui si registrano maggiormente business gestiti da donne sono nell'ambito del wellness, della sanità, dell’assistenza, della moda, dell’istruzione, del turismo e della cultura. Ma nella ristorazione? Solaika Marrocco, premiata come miglior giovane chef (26 anni) nella guida Michelin 2022, lo ha definito “uno dei settori più maschili”. Come darle torto, dato che quest’anno il suo Primo Restaurant è stato l'unica new entry a gestione femminile ad essere premiato con una stella tra i 33 nuovi vincitori. Qui vediamo spuntare un dubbio classico: come mai le donne le consideriamo tutte cuoche ma gli chef premiati come migliori sono sempre gli uomini? Per rispondere a questa domanda dobbiamo fare un’analisi antropologica.
L’intera narrazione della donna ubbidiente e passiva così come la conosciamo oggi è stata costruita perfettamente per far funzionare il sistema capitalista in cui viviamo sin dagli inizi del XVIII secolo. Parliamo della perfetta “donna del focolare”: mansueta e paziente, che si prende cura del marito appena questo rientra dal lavoro preparandogli da mangiare e occupandosi della casa. Alla donna viene assegnato il lavoro di cura e di mantenimento. Il filosofo olandese Pierre Bayle, nel 1697, in Dizionario storico politico ne esaltava “l’istinto materno” che, col passare del tempo, diventerà l’unica aspirazione concessa ad una donna, in contrapposizione ovviamente alla figura dell’uomo lavoratore. Il suo compito sarà quindi sempre quello di nutrire le persone a lei care, o come madre attraverso l’allattamento o in quanto moglie lavorando in cucina. Per secoli questa narrazione è andata avanti dipingendo i due generi raccontati - l’uomo e la donna - come due metà che si compenetrano l’una con l’altra creando un equilibrio perfetto, ma non è così. Queste categorie non solo imprigionano le persone in dei compiti che non hanno deciso loro e che, quindi, potrebbero anche non voler intraprendere, ma bisogna anche ammettere che i ruoli sono completamente sbilanciati.
La donna è la “regina dei fornelli”, “la cucina è il suo regno” ed è vero: lì “comanda” lei. Possiamo anche ammettere, però, che quello è un regno un po’ piccolo e imposto. La donna di casa è stata relegata all’interno della casa stessa, solo lì ha dei diritti, fuori invece è il regno dell’uomo. Questa gerarchia dei poteri si manifesta anche attraverso le ritualità che abbiamo sviluppato con il cibo. La donna, infatti, viene spesso associata al forno, o ancora meglio alla pentola, che rappresenta da sempre una cucina gentile, accogliente, sicura: il cibo viene inserito nell’acqua bollente e si “ammorbidisce”, diventa più “tenero” - tutti aggettivi che attribuiamo alla femminilità. Quando invece è un uomo a cucinare dove lo immaginiamo? Fuori, davanti alla griglia del barbecue a cuocere delle fette di carne direttamente sulle fiamme: succulenti, dal sapore “deciso” e “forte”. Se questa descrizione può sembrare una curiosa coincidenza, in realtà, mostra quanto i ruoli di genere abbiano una influenza incredibilmente capillare, anche verso le nostre abitudini più comuni.
Analizzare il valore culturale della donna e il ruolo che ha il cibo in tutto questo è particolarmente interessante perché ci svela l’inganno dietro la narrazione della femminilità. Il cibo culturalmente è sempre stato un simbolo di potere: si consuma per avere più forza. Chi possiede il cibo è più potente, infatti rappresenta sempre un traguardo e un successo. Inoltre, è anche quantificabile: più se ne ha, più potere si ottiene. Qui torniamo alla nostra domanda iniziale: come mai la donna, che ha come ruolo quello di gestire il cibo, non ne assume automaticamente il suo potere culturale? La risposta è tanto semplice quanto crudele: la donna, all’interno della tipica narrazione capitalista e patriarcale, si occupa effettivamente della gestione del cibo, ma non è lei che lo controlla. É l’uomo che “porta a casa il pane”, che lo compra, perché è l’uomo che produce denaro, detenendo potere. La donna invece “cucina con amore”, una dote che viene definita come “innata” o “naturale” e, per questo motivo, sempre secondo una narrazione classica, non richiederebbe alcun talento. La gerarchia dei generi proposta dalla nostra società non è sbilanciata solo per una questione di spazio occupato come abbiamo detto in precedenza, ma anche per il tipo di ruoli assegnati a questi generi. La figura della donna come “regina del focolare” è subordinata a quella dell’uomo, il cosiddetto “padre padrone”. Essa non solo non trae potere dal cibo, ma viene addirittura messa sullo stesso piano. Seguendo questa narrazione patriarcale e capitalista degli ultimi 300 anni possiamo dire, con non poca amarezza, che la donna viene considerata proprio come il cibo. Il suo corpo viene spesso raccontato come “venduto”, “mercificato” o “dato in pasto”, proprio come se non fosse suo, ignorando completamente la volontà di quella persona, disumanizzandolo completamente. La madre allatta e darebbe la vita per il figlio, la moglie dedica tutta se stessa per il mantenimento e il sostentamento della casa e del marito: in sostanza la donna si consuma per le persone attorno a lei. Un uomo che ha una donna accanto è più potente e, anche in questo caso, come con il cibo, più donne ha avuto, più il suo potere cresce.
Questa analisi simbolica e culturale che lega l’immagine del cibo alla figura della donna, rivela una narrazione di quest’ultima come subordinata a quella dell’uomo e oggettificata. Tutto questo purtroppo si manifesta in tutta la sua crudezza sia nel modo in cui raffiguriamo la donna in qualunque media, sia nel modo in cui viene trattata all’interno della nostra società e il mondo della cucina non fa eccezioni. A Firenze, infatti, nel 2021, Giorgio Pinchiorri, titolare dell’enoteca Pinchiorri, tristellata, fu accusato di molestie nei confronti di una giovane sommelier e, dopo un patteggiamento, si dichiarò colpevole evitando il processo e fu incarcerato con una pena di 4 mesi. Nonostante la vittima si fosse licenziata e lo avesse denunciato più volte, lo stalking è andato avanti per 5 anni. Lo squilibrio di potere qui è evidente perché non viene riconosciuta la volontà della sommelier, né dal suo aggressore né tanto meno da una società che ha fatto passare tutto questo tempo prima di poter agire. Questo episodio così recente, di cui troppo poco si è parlato, ci costringe ad ammettere che anche nell’ambito dell’alta cucina esiste di fatto uno grande squilibrio di potere legato al genere e che, ancora oggi, dev’essere smascherato e combattuto. L’unico modo per poter prevenire e affrontare definitivamente tali comportamenti e squilibri è ripensare al tipo di narrazione che abbiamo costruito attorno al genere e che in questo articolo abbiamo brevemente descritto: quella di una società in cui c’è colui che consuma e colei che viene consumata. Se si riesce a descostruire questo tipo di narrazione, allora abbiamo una speranza.
Nonostante il mondo della ristorazione sia ancora considerato un settore prettamente maschile, le cose stanno lentamente cambiando e - con una consapevolezza maggiore sul tipo di narrazione (terribile) che nei secoli è stata costruita - sarà possibile smontare più facilmente lo stereotipo. Dobbiamo tenere a mente che “il regno della cucina” deve essere una scelta e non un’imposizione, che l’abilità in cucina è sempre frutto di esperienza e dedizione per chiunque e di qualunque genere. Come tale deve esserne riconosciuto il valore professionale, sempre.