“Cook the Mountain” secondo lo Chef Luca Armellino

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Natura e Cultura: eterna dicotomia. La sostenibilità potrebbe essere il concetto risolutivo, in bilico tra terra e pensiero, ma non basta parlarne (bene o male) e nemmeno immaginare un mondo utopico in cui tutto è in equilibrio. La sostenibilità si fa con le mani, partendo dalla voglia di impastare territorio circostante e conoscenza, azzerando le credenze, evitando le noiose frasi fatte e le seducenti strategie di greenwashing.

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Foto di Francesco de Marco

Chef Luca Armellino, cagliaritano classe 85, parte proprio da qui, per portare avanti la filosofia “Cook the mountain”: più fatti, in cucina e fuori dalla cucina, e meno melense “parole verdi”. Si trasferisce a Roma per imparare dai grandi nomi della capitale, poi il Noma di Copenaghen, rivoluzionaria scuola di etica e cucina; fa esperienza al Per Se a Manhattan, e poi al Bulgari a Tokyo al fianco dello Chef Luca Fantin, dove si fondono stili, gesti e si ibridano i sapori con la precisone di cecchini del gusto. Luca, quindi, approda felicemente al St. Hubertus di San Cassiano, fianco a fianco dello Chef Norbert Niederkofler, ne condivide gli intenti e la filosofia, e tutto ciò che aveva sempre sognato per la sua carriera prende forma. La cucina è un potente mezzo educativo, il cibo è prima di tutto un fatto sociale, il cuoco è un demiurgo capace di plasmare la realtà attraverso le sue scelte e il ristorante un crocevia di cultura empirica, buone relazioni e duro lavoro.

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Foto di Francesco de Marco

Qualche mese fa lo Chef Armellino si trasferisce insieme alla moglie Michela Stirbu (Social Media manager) al ristorante Kosmo, a Livigno, per sperimentare la Valtellina e una nuova dimensione collettiva fatta di produttori laboriosi e giovani cuochi, portando aria nuova, definendo altre vette della cucina di montagna. Le mani, la tecnica e le idee dello Chef sono vettori capaci di portare fino alla tavola l’energia delle montagne lombarde: “Taste the Mountain” per davvero, senza scorciatoie. “Non deve essere il produttore ad adeguarsi allo Chef, ma il cuoco che si deve adeguarsi alla natura e ai prodotti che il produttore può fornire, senza alterare il naturale percorso vitale del prodotto”, dice Luca, senza compromessi, perché è proprio questo il senso della sua cucina, lasciare un’impronta senza stravolgere fragili equilibri, avere ben chiara l’idea che stagionalità fa sempre rima con cambiamento ed evoluzione. “Ho comprato da un amico produttore una partita di fragole verdi, che con ogni probabilità sarebbero state buttate”, trasformando quello che la società del consumo e della perfezione chiama scarto in concentrazione di sapore da poter conservare: le fermentazioni destagionalizzano le materie prime, unico compromesso che lo Chef Armellino si sente di poter accettare nella creazione dei suoi menu.

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Foto di Francesco de Marco

“Non usiamo l’olio di oliva, non è certo un prodotto che troveresti qui, ma olio di vinacciolo, potenziato dall’infusione con le erbe…del grande regalo che i piccoli allevatori ci fanno, animali trattati con rispetto, usiamo ogni parte” facendo continua rotazione dei diversi tagli e tipi di carne nel menu, portando all’attenzione del cliente ciò che spesso viene dimenticato, orecchie e mammelle compresi. Il limite non esiste, tutto è coerente in una cucina in cui non esiste neanche il bidone dell’umido, perché lo scarto è un concetto contemporaneo e poco intelligente, e la standardizzazione del sapore è anacronistica e superata. Una rapa rossa, come ogni vivente, è figlia del terreno di cui si nutre e delle temperature e dell’esposizione al sole, per questo nel corso della stagione cambia colore, subisce variazioni di dolcezza e consistenza, e finisce inevitabilmente per dar vita a piatti sempre diversi. Se ci abituiamo alla ricca variabilità della natura e per un momento mettiamo da parte l’antropocentrismo e l’ego, che ci spingono a voler razionalizzare e replicare ogni cosa secondo umani preconcetti, ci accorgiamo che il ristorante può veramente essere uno spazio di comprensione della realtà, dolce o amara che sia, e che l’esperienza gastronomica è momento ludico ed educativo insieme.

A volte capitano clienti che mi chiedono perché un piatto assaggiato pochi giorni prima sia così diverso quando viene assaggiato per la seconda volta…e questi sono i momenti speciali in cui riesco a trasmettere le mie idee senza la presunzione di insegnare, solo mostrando loro l’altra faccia della ristorazione.
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Foto di Francesco de Marco

Nell’insalata di radici, ad esempio, il kombucha di mele e olio di vinacciolo al levistico armonizzano con la parte terrosa, ferrosa e dolciastra dei vegetali di montagna senza stravolgerle o doverle cambiare; nel salmerino della Valmalenco si accosta cavolo viola fermentato e polvere di cavolo nero, in una bella circolarità tra lago e orti invernali, rispettando il qui e ora delle materie prime. “Nei dessert non usiamo il cioccolato, perchè il cacao è un altro di quei frutti che il territorio non produce”, allora si dà spazio alla zucca, che diventa sorbetto, con crema di castagne, riduzione al melograno e chips di topinambur glassate al fieno. Se ogni piatto è definito dai tempi e dai cicli dell’orto, dal lago, della stalla e della malga, anche il lavoro in cucina e in sala accoglie la visione. Si può lavorare bene e meno, tenendo aperto tutto l’anno, evitando la grande rincorsa alla stagione invernale tipica delle zone di montagna, accompagnando le brigate in una nuova avventura, lontana dall’idea di performance a tutti i costi. Cucinare è veramente un atto rivoluzionario per Luca Armellino, così tanto da essere in grado di ricordarci che ogni azione ha una reazione, che ogni elemento di questo ecosistema conta e che la relazione tra umano e naturale è soprattutto un fatto di cultura.

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Foto di Francesco de Marco

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