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Alle 2.28 minuti di una notte tra sabato e domenica, quando in condizioni normali si starebbero contando cocktail o sognando sguardi, sono saltati i tappi delle bottiglie dei festeggiamenti: i coriandoli sparati a riempire il vuoto fisico del teatro Ariston di Sanremo, fruscianti sul palco dove i Måneskin vincitori si abbracciavano nel più glorioso dei pogo senza musica, e quelli delle bottiglie che hanno celebrato ufficialmente la fine della maratona di lunga resistenza. Cinque serate per oltre trenta ore di diretta più o meno serrata, che ha coinvolto telespettatori, conduttori, artisti, maestranze. Persone.

Il Genio Italiano vero, fatto di lavoro artigianale e digitale, che nell’edizione più complicata di tutte, senza appigli se non la forza di volontà (quella sì da celebrare), sostiene sulle proprie spalle l’intera struttura della manifestazione.

Lavorando instancabilmente per abbellire il Festival della ripartenza, la definizione con cui sarà cristallizzato nella Storia, senza smettere per un secondo di riconoscere lo straordinario impegno profuso. Quindi, cin cin. Le bollicine del Prosecco messo al fresco in orario aperitivo, ripromettendosi di rendergli giustizia a serata finita, o con un bicchiere d’emergenza prima di cominciare. Lo ha confessato Malika Ayane nel backstage: “Un bel bicchiere di vino e poi salgo sul palco”.

Potere salvifico, liberatorio, di un calice solitario e intimamente desiderato che riesce a sbloccare le ultime resistenze già solo liberando la gabbietta che serra il sughero del tappo.

O, nel caso specifico di certe bottiglie, slacciare lo spago con la stessa cura sensuale riservata all’ultimo bottone, o a quella zip che disegna il filo della schiena. Il perlage fresco del Prosecco abbatte le inibizioni e, mettendoci fuori fuoco, ci rende ancora più concentrati su ciò che stiamo facendo. La più felice delle dissociazioni da sé, la più efficace per non sentire tutto il pericolo del proprio mestiere nel momento di massima tensione. Un coraggio liquido, sera dopo sera, nel backstage affollato di mascherine ed emozioni, con fotografi e operatori che si insinuano instancabili a fermare attimi di sensazioni incalcolabili, sottili, visibili solo ad un occhio debitamente allenato a coglierle. Scatti e istantanee in bianco e nero che colgono guizzi di muscoli facciali, respiri profondi vicino ad una finestra, qualche sigaretta adrenalinica, le scale armoniche per scaldare le voci e quelle scenografiche da scendere con attenzione millimetrica dentro l’Ariston. Sognando il momento perfetto quando finalmente, dopo quei minuti infiniti sul palco, si potrà smettere di preoccuparsi della performance, il come andrà diventa semplicemente è andata. Gli scatti de La Rappresentante di Lista, con Veronica e Dario nel loro viaggio al termine della notte di esibizioni impeccabili, e quelli solari di Arisa del giorno dopo, il sorriso largo come un orizzonte. Quando si torna a dedicarsi a sé, con una piccola cura estemporanea per allentare, rallentare, fermarsi un istante e concedersi finalmente di ripartire. La parola che abbiamo sentito più di tutte, la parola che raccoglie una speranza collettiva. Sono immagini anche queste, reali e irreali, pensate o accadute davvero, che raccontano ciò che avviene a Sanremo quando gli affidiamo tutte le nostre speranze di leggerezza temporanea. Funziona, sempre.

Con il bicchiere di Prosecco DOC mezzo pieno (d’ottimismo servito freddo) e la sospensione dal quotidiano, ci si tuffa dentro la più meravigliosamente scintillante delle bolle reali.

Sanremo esiste, Sanremo serve, Sanremo aiuta a staccare da conteggi dolorosi fantasticando sui numeri -chissà se qualche solerte funzionario li avrà calcolati davvero nella compilazione del budget- di quante bottiglie di bollicine fresche saranno state impilate al fresco dei frigobar degli alberghi o nei camerini, e accarezzate con lo sguardo fino all’ultimo minuto. Questa la apro dopo è un mantra religioso di fiducia in sé stessi, il premio più ambito del comunque vada. I milioni di orecchie critiche all’ascolto non potrebbero mai scalfirne il valore simbolico, gli occhi scrutatori non sapranno mai coglierne le sfumature. Lì, tra storie d’amore cantate a voce piena, look da sezionare e discutere sempre e comunque, le messe in scena screenshottate senza pietà per farne meme eterni di cultura superpop dal codice linguistico a sé, di bottiglie non se ne sono viste fisicamente. Non ancora, almeno. ci vorrà ancora qualche tempo prima di abbellire la vittoria di Sanremo con lo scroscio lussurioso di bottiglie che inondano il triplete finale, il vincitore e i vinti dell’edizione, forse anche mezza orchestra, le poltrone del cinema-teatro che hanno evidenziato un vuoto incolmabile da qualunque palloncino gonfio (fosse anche quello più sarcastico finito nelle retrovie per merito di qualche genio). La prossima volta si potrebbe pensare di posizionare delle bottiglie. Le stesse che per ora hanno tenuto fede alla loro natura di àncora di salvataggio e si sono rivelate il miglior sistema di gradimento, una votazione social a base di tappi saltati ed effervescenze che equivalevano all’esibizione.

All’Ariston l’evento, in milioni di case le correlazioni all’evento, quando non addirittura legati tra di loro. Un palinsesto parallelo di brindisi, drinking games sarcastici e commenti al ritmo di chat su Whatsapp, second screen serrati sui social, affollate dirette Clubhouse. Sorsi di Prosecco virtualmente condivisi per marcare il ritmo delle singole tappe intermedie, canzone dopo canzone, sketch dopo sketch. Reggere, prendere in giro e onorare al tempo stesso il rituale passé del Festivàl, con quell’accento spostato sulla pronuncia che ne evoca l’anima retrò. D’altronde è ancora l’unica manifestazione che venga chiamata kermesse, con una punta di nostalgia a Sanremo si può concedere (quasi) tutto. Tranne bere male, quello non è ammesso mai, e anche stavolta lo abbiamo ribadito con fermezza: la ripartenza in un ricomincio da tre, dalle poche certezze che sono rimaste anche dopo che le abbiamo messe in discussione. Sanremo non è mai stato trash, forse un filino kitsch, magari camp in alcune apparizioni, ma ora le sue innumerevoli definizioni vanno riscritte con parole nuove e con il giusto significante e significato in grado di carpirne la fluidità, lo scorrere apparentemente contro ogni tempo, forse dentro il suo stesso tempo, in un progresso lento che riusciamo a leggere soltanto anni dopo.

Forse è anche questo il Genio Italiano: la resistenza rivelatoria sul lungo termine. Come una bottiglia da stappare con furioso ardore per lasciare che il perlage affolli deliziosamente la gola, rinfrescante e rinvigorente, così è stato Sanremo e così lo saranno i futuri, dei quali sapremo cogliere gli aspetti più leggeri e le migliori polemiche.
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