L’iconografia è precisa, univoca, universale. Lo sfondo di una tovaglia a quadretti morbidamente stropicciata, a evocare i gomiti puntati di qualche minuto prima. La messa a fuoco radiale su una ciotola bassa in primo piano. Un piatto di pasta. Pieno. Preferibilmente spaghetti, pennellati di rosso pomodoro denso e sabbiati da una nevicata di parmigiano, una foglia di basilico o due, staccate dalla cima della pianta tenuta su un immaginario davanzale.
La forchetta stride piano sulla ceramica, il profumo cerebrale, il gusto sempre diverso ogni volta va ad allargare quella speciale categoria della memoria. Infine si completa l’opera con tre-quattro centimetri di crosta di pane da pattinare nel sugo, premio extra che fa inorridire gli esperti di bon ton e sorridere gli chef dietro le cucine a vista. “La pasta al pomodoro è uno dei migliori piatti al mondo” sentenzia netto Norbert Niederkofler, chef tristellato del St. Hubertus, nella prefazione a Tempi di Recupero (Quintoquarto Edizioni); in un’intervista Carlo Cracco ha confessato che è il piatto che lo riporta all’infanzia senza nostalgie tossiche (ma privato del parmigiano, perché secondo lo chef vicentino il più nobile protagonista della tradizione casearia si esprime al meglio in assolo: punti di vista condivisibili o meno, sempre importanti). La pasta al pomodoro. Filosofia di concetto e basta, persino senza specifiche di formato. Se per gli stranieri lo spaghetto equivale all’Italia, per gli indigeni ci sono infinite varianti di scelta, superano anche i ricordi da lustrare in collezione. Perché in verità ciascuno ha la sua preferenza, la sua madeleine personale di grano duro. Piatto universale che lega età, geografie, sentimenti. Li fusilli dell’asilo e i rigatoni dell’università, i paccheri modaioli (sovrastimati come tutti i maxiformati), le penne arrabbiate dall’incontro tra il peperoncino e il pomodoro.
Altro capitolo, altre icono-geografie. Sugo o salsa tradizionale e immutabile, emigrato dal Sud al Nord, ristretto in doppi o tripli concentrati, velluto nella passata, possente nei pelati selezionati con attenzione. Venduto in buatte dalle grafiche già vintage, o custodito in bottiglie dall’alta percentuale di rischio esplosione nel silenzio delle cantine. Chi ricorda la pasta comprata a peso nelle botteghe, chi associa certe combinazioni di colore alle luci vivide lost in the supermarket, coi piedi penzoloni contromano al carrello. E quel mistero delizioso, gaudioso, che idrata la durezza vertebrata delle penne o dei fusilli fino a trasformarle nel più immediato dei comfort food. Nemmeno la cultura salutistica che dagli anni 80 a oggi ha demonizzato la semplicità della pasta addossandole colpe non sue è riuscita nella missione di devastarne l’immagine, anzi: per quei meravigliosi paradossi che l’arte culinaria prende laicamente in prestito dalla religione, il proibito acquista il sapore del piacere più puro e assoluto. Superata indenne l’era, il Risorgimento pastaio sta vivendo la sua epoca migliore, raccontando i pastifici artigianali (o storicamente resistenti) attraverso grani antichi, agricolture avanzate, acque pure e trafilature con metalli sempre più preziosi.
Il fuoriorario sociale di un aglio olio e peperoncino (con prezzemolo fresco? Zest di limone? Bottarga? Tela personalizzabile), il desiderio aromatico di un pesto genovese, la densità umami di quello trapanese, si accomodano serenamente a mezzanotte, alle quattro del mattino, alle cinque del pomeriggio. Dimentichi delle lancette, ci si concentra solo sul movimento: voluttuose arrotolate scolpite nel DNA di un’intera popolazione, infilzate furenti di formati più brevilinei. E se la frase d’amore più bella in tutte le lingue è veramente “hai mangiato?”, un piatto di pasta è la traduzione del sublime.