Legumi e ristorazione: un connubio difficile ma necessario

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Se tu o qualcuno dei tuoi conoscenti seguite una dieta che esclude in parte o in toto gli alimenti di origine animale, probabilmente saprete quanto sia difficile gestire un pasto fuori casa. Quando l’esclusione è limitata a pochi alimenti, per esempio soltanto alla carne e al pesce, i formaggi, normalmente ben rappresentati nella ristorazione comune, costituiscono la principale proposta alternativa, anzi quasi sempre l’unica effettivamente disponibile. Ma se oltre a carne e pesce, anche formaggi e uova sono esclusi, riuscire a trovare qualcosa di diverso rispetto a un piatto di pasta al pomodoro o a un’insaun’insalatalta verde è a dir poco arduo.

Per quanto il movimento vegetariano, in tutte le sue possibili sfumature, non sia certo una novità, l’impressione è che la ristorazione italiana sia ancora impreparata a soddisfare le richieste di una clientela alla ricerca di valide alternative ai tradizionali piatti a base di carne, pesce, uova e formaggi.

Una possibile soluzione per colmare questa lacuna potrebbe giungere da un impiego più significativo dei legumi, ma più fattori sembrano rallentare il loro ingresso nei menù delle tavole fredde e calde, delle trattorie e dei ristoranti. Cerchiamo di capire il perché.

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Il primo tentativo di una ristorazione senza carne e senza pesce si ebbe agli albori del XX secolo per iniziativa della Società Vegetariana d’Italia, che nell’ambito del Programma scientifico per l’istituzione in Milano di ristoratori igienici avviò il progetto di una cooperativa vegetariana. Il progetto si concretizzò con la nascita del Ristorante vegetariano della società cooperativa vegetariana, inaugurato nel settembre del 1907. In un articolo dell’epoca Il Corriere della Sera riporta il menù preparato per l’occasione: “Antipasto alla Russa che constava tra l’altro di pomodori quasi crudi con ripieno di mayonnaise, zuppa Dubarry, sformato di spinacci alla Regina Margherita, soufflé di funghi con cardi alla parmigiana, costolette di legumi alla Diplomatica con insalata composta, pasticcini di pesche con crema Chantilly, frutta mista”. Dagli antipasti ai secondi piatti le verdure sono ben rappresentate, mentre i legumi figurerebbero tra gli ingredienti principali delle escalopes végétariennes, probabilmente “composte con resti di fagioli o lenticchie impastati freddi con pane e uovo, messe in forma ed impanate per la frittura o la griglia o il forno”. Non si esclude tuttavia che la ricetta sia quella delle costolette vegetariane proposta nel ricettario Centodieci Piatti diversi di Erbaggi e legumi, che tra gli ingredienti annovera una generica “giardiniera di erbaggi tagliati molto fini”, senza peraltro citare esplicitamente fagioli, lenticchie o altri legumi in senso stretto. Il menù inoltre fa largo uso di uova, latte e dei suoi derivati: formaggi, panna e burro erano infatti ingredienti irrinunciabili nella cucina francese, cui il menù evidentemente s’ispirava e non solo nella terminologia dei piatti, ma anche nel gusto e nelle tecniche di preparazione degli stessi. Poco sale e niente alcolici completavano il banchetto, non senza il disappunto di alcuni.

L’istituzione del primo ristorante vegetariano nacque dalla convinzione che solo portando la battaglia del vegetarismo tra le cucine e i tavoli delle trattorie, scuotendo e conquistando l’opinione pubblica, il movimento avrebbe potuto diffondersi e fare proselitismo. I nuovi adepti, in altre parole, andavano presi per la gola. La necessità di rendere più che appetibili e non troppo originali le pietanze manifesto del nuovo regime alimentare, unitamente all’inesperienza di cuochi e garzoni nel tradurre in pratica culinaria i precetti igienici, fece sì che il modello gastronomico francese, al quale peraltro appartenevano i pochi ricettari di cucina vegetariana diffusi all’epoca, venne preso ad esempio fin dall’inizio, con l’unica differenza di sottrarre dal menù carne e pesce, di fronte ai quali tutto il resto faticava a reggere il confronto. Ne risultò che, nonostante le migliori intenzioni, fu proprio il menù del primo banchetto vegetariano a decretare implicitamente la subordinazione dei cibi vegetali a quelli di origine animale. I legumi, forse celati in un impasto che tentava di recuperare almeno nell’aspetto della pietanza servita la centralità delle carni, si lasciavano così sfuggire l’occasione di rivendicare non solo il loro valore nutritivo, ma anche la dignità di alimento che pur nella sua semplicità avrebbe potuto ambire all’onore delle tavole più raffinate, se non sostituendo almeno affiancando quei cibi proteici di origine animale che ancora oggi sono gli unici a poter vantare un attributo di nobiltà.

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È trascorso più di un secolo da questa esperienza e certamente molte cose sono cambiate, ma una certa stigmatizzazione sembra ancora affliggere la reputazione dei legumi e di chi li preferisce agli altri alimenti proteici.

Alimento base della dieta contadina, insieme a cereali minori, tuberi e radici, ortaggi e frutti la cui disponibilità era al servizio del capriccio stagionale, i legumi ereditano la nomea di cibo povero, proteina dei semplici. Quel che più difetta a ceci, fagioli e lenticchie è soprattutto la materia grassa, ben rappresentata invece nei prodotti animali e preziosa quanto rara fonte di nutrimento, almeno fino al secondo dopoguerra quando l’Italia era ancora “un Paese povero e arretrato, condannato a una dieta pressoché vegetariana, povera di grassi e di proteine”. Proprio con questa frase la Treccani dipinge il quadro che emerge dall’analisi dei dati pubblicati nel 2011 dall’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione sull’evoluzione dei consumi di alcuni prodotti alimentari nell’Italia repubblicana. I grassi oltre alla sostanza conferiscono anche gusto alle pietanze, ed è proprio il desiderio di abbandonarsi ai piaceri della tavola a costituire una delle motivazioni che ci spingono a prenotare un coperto al ristorante, senza naturalmente trascurare il fattore convivialità. Quante occasioni speciali avete onorato con un macco di fave? Per l’appunto.

Scelta salutare più che sfiziosa, i legumi quando proposti fanno spesso coppia con altro che dia maggior valore al piatto: più facilmente un prodotto animale, ma anche vegetale, purché abbastanza nobile, come quei tartufi che nella salsa diplomatica impreziosivano le costolette di legumi del banchetto vegetariano milanese. Soltanto l’hummus di ceci, forse per il fascino connaturato nei cibi orientali o per qualche trend da social media, sembra essere riuscito a conquistarsi una dignitosa autonomia nei menù di bistrot e ristoranti.

La tendenza a considerare i legumi più adatti alla dieta (qui nella sua accezione meno felice) che al menù di un ristorante emerge anche dai risultati di una semplice ricerca online. Basta chiedere “dove mangiare legumi in città” oppure “ristoranti in città che propongono legumi nel menù” per vedersi proporre le migliori zupperie e l’elenco dei minestroni più apprezzati, suggerimenti su dove consumare un pasto sano e leggero, una selezione dei locali healthy più deliziosi, ottimi indirizzi di ristoranti vegetariani e vegani e una serie di dubbi su che cosa mangiare fuori casa quando si è a dieta.
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Se dunque tu o qualcuno dei tuoi conoscenti seguite una dieta che esclude in parte o in toto gli alimenti di origine animale, l’opzione migliore sembra quella di organizzarsi per tempo, spulciare i menù dei ristoranti papabili a caccia delle poche pietanze contrassegnate come adatte a chi ha scelto un’alimentazione prevalentemente e completamente vegetale - sperando che in qualcuna di esse i legumi figurino tra gli ingredienti - oppure rivolgersi direttamente ai ristoranti noti per i loro menù vegan friendly. Purtroppo ancora oggi se non mangi tutte o alcune delle proteine di origine animale, è più probabile che ti lascino a bocca asciutta o che ti rifilino il solito formaggio o due uova sunny style piuttosto che un piatto di riso e piselli o di pasta e ceci.

Affinché i legumi escano dalle cucine delle gastronomie vegane e dei ristoranti vegetariani per conquistare le tavole di tutti, bisognerebbe innanzitutto restituire valore a un alimento che per troppo tempo ha pagato lo scotto dell’egemonia degli alimenti grassi e proteici di origine animale; in secondo luogo è necessario emanciparli da una visione che ancora oggi li vede legati a sacrifici dietetici e scelte alimentari che nella visione comune perseguono un benessere che trascura il piacere del mangiare. Il cambiamento è soprattutto culturale e forse per iniziare questa rivoluzione basterebbe inserire una zuppa di ceci nel menù.

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