A contatto con storie di ulivi millenari che circondano un casolare, di raccolta come momento di festa in famiglia, di trasporto delle olive ai frantoi, di olio per le lanterne dei marinai. In un pomeriggio di fine agosto, Cinzia, olivicoltore calabrese, passa le dita tra i frutti dei suoi ulivi ed inizia a raccontare.
Nell’aria si percepisce la fine dell’estate. All’ultimo piano dell’antico casolare ai piedi della Tonda di Strongoli il vento sembra impartire ordini allo scenario naturale circostante. Si vede qualche casa in lontananza, le porte sono chiuse, le finestre serrate, chiara manifestazione che anche gli ultimi turisti hanno lasciato la Calabria.
Ma la fine dell’estate è soprattutto nei pallidi colori dei campi che circondano il casolare: le distese di un verde tenue, timido, sono il palcoscenico dei numerosi ulivi che punteggiano il territorio. Scese le scale e chiusa la porta di ingresso col suo stridente cigolio, il colore degli ulivi assume maggiore saturazione. Sono alti, altissimi, ed il tronco pare raggiungere i tre metri di diametro. Nel contemplarli, si nota una silhouette di donna chinata dinanzi ad una delle piante. È Cinzia, indossa un lungo abito bordeaux abbinato al cappello e al ciondolo a forma di chiocciola.
Gli ulivi sono i suoi, lo si comprende dal delizioso modo con cui passa le dita tra un frutto e l’altro. Sono olive premature, la loro raccolta si farà attendere ancora per un mese e mezzo.
Cinzia ha una parlata placida, pacata, ricorda la lentezza del mare nelle prime ore del mattino, quando le onde risalgono la battigia e producono un suono dolce. Spiega con ferma sicurezza che la raccolta di quest’anno avverrà ad ottobre, al massimo nei primi novembre. Ormai ha imparato ad interpretare le stagioni climatiche ed i colori dei campi, sa riconoscere i segnali che precedono il momento esatto della raccolta di quel bene, sincera espressione di un’identità territoriale millenaria.
Cinzia si alza in piedi, si ricompone e con la mano sinistra si asciuga la fronte.
Lo sguardo si fa serio quando tra le foglie di un ulivo individua due, tre insetti piccolissimi. I parassiti possono rovinare interi raccolti. Li scaccia via con l’indice – a loro ci penserà mio marito Pasquale – afferma. Lui ha ereditato l’enorme territorio, casolare compreso, ha trascorso una vita intera in quei campi e ormai non ha più segreti da apprendere, non resta che tramandarli a chi vuole ascoltare.
Con l’indice puntato verso alcune delle piante spiega che quegli ulivi sono millenari.
Infatti, quello calabrese, è uno dei patrimoni più antichi e ricchi di Italia, ettari di foreste di ulivi ricoprono completamente i terreni, si possono ammirare anche dall’alto, dal finestrino di un aereo, una graziosa distrazione dalle selvagge montagne dell’Aspromonte.
Ma la produzione di olio calabrese non è solo un contributo necessario al supporto del Made in Italy, perché c’è stato un tempo – continua ininterrotta Cinzia, tanto compiaciuta dalla sua favella – in cui il protagonista della dieta mediterranea era destinato alla produzione di lanterne spesso utilizzate dai marinai del posto.
Oggi il contenuto della raccolta è prevalentemente destinato al commercio, i frantoi lavorano le olive trasportate dal marito di Cinzia e riempiono annualmente un numero variabile di bottiglie in vetro.
Certo, rispetto al passato qualcosa è cambiato.
Il metodo di raccolta odierno consente di massimizzare la produttività della coltura sfruttando le grandi braccia meccaniche delle macchine agevolatrici. In passato, invece, era l’uomo a scuotere con forza i grandi rami, le olive cadevano giù in grandi cesti di vimini e si procedeva con la pulitura.
Fatica, sudore, pazienza. Ma la raccolta era anche un momento per stare insieme in famiglia. Anzi, la si può paragonare ad una vera e propria festa, una di quelle che raduna anche i parenti lontani che si presentano annualmente al pranzo di Ferragosto.
La stessa donna dal vestito rosso spiega che il nonno e gli zii avevano il compito di muovere con forza i rami, talvolta anche procurandosi qualche graffio o tagli bizzarri alle camicie di lino, mentre lei e le sue cugine pulivano minuziosamente le olive. Le loro dita sottili staccavano una foglia dopo l’altra, e intanto i familiari narravano ricordi del passato, aneddoti di qualche periodo più recente, e ipotesi più e meno astratte sul futuro.
Era una vita semplice. A tratti sorprendente nella sua spiccata ingenuità. Capitava, infatti, che per un anno le olive fossero improponibili al frantoio perchè in numero insufficiente, o vittime di parassiti o della siccità.
La certezza che accomuna Cinzia, i suoi familiari e gli immensi campi fuori dal suo casolare, è la virtù della pazienza.
Prima di andare via, la donna mi invita a sedermi al tavolo del suo casolare. La tovaglia a quadroni blu e bianchi, con qualche taglio qua e là, è la stessa su cui un tempo cadevano decise le olive dagli alberi scossi.
Con le dita tocco i tagli in rilievo, mente Cinzia riempie un bicchiere di vino e serve in un piatto di ceramica rossa una fetta di pane bianco macchiato da qualche goccia d’olio.
Un gesto d’affetto, accompagnato da un disinvolto “fermate ‘ca pe stasira, si bell” (Fermati qui per stasera)
Ho accettato, i suoi occhi pieni d’arguzia mediterranea le illuminavano il viso.