Riccardo Camanini

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Non sarà il solito pezzo.

Nessuna recensione di nessun piatto, era buono, era così, era colì. Non ci interessa imprigionare, come scrisse più di un decennio fa Andrea Petrini “la sua cucina nelle maglie di costrizione, peggio di una cintura di castità, della mera attualità culinaria. Della tecnica. Della realizzazione”.

Di Riccardo Camanini al massimo possiamo parlare di stati di grazia fatti piatto, non la somma dei loro ingredienti, ma il concomitante coincidere, in uno spazio dato, di slanci e ritrosie, di lirismo alla prima persona e di lasciti culturali universali. Eh sì, non è secondo voi un lascito culturale universale, o anche patrimonio dell’umanità, la sua Cacio e pepe in vescica, oppure lo Spaghettone al burro e lievito di birra? Se li avete assaggiati risponderete sicuramente di sì, se non lo avete ancora fatto, fiondatevi.

Per esempio, del suo Spaghettone, Alain Ducasse disse che è il piatto più buono che lui abbia mai mangiato, e lo inserì pure in uno dei suoi menù. Ed è pure al Moma di San Francisco. Durante l’intervista che ha rilasciato a Tuorlo Magazine, Camanini ha detto che la cucina è una forma di artigianato, che si avvicina più ad essa che all’arte. Ma allora che ci fa il suo piatto nel menu del ristorante del Museo di Arte Moderna? Neo-dadaismo o espressionismo figurativo?

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Insomma, sulle rive di Gardone Riviera e sul filo d’acqua del Lago di Garda, tramava e prendeva forma uno dei talenti più eclatanti e singolari che la cucina sforna ogni cinquant’anni.

È in questo lido che abbiamo vissuto per più di una settimana con Riccardo Camanini e suo fratello Giancarlo, in sala.

Tra i tanti Marchesi Boys - Cracco, Crippa, Baronetto, Lopriore, Oldani, Berton - Riccardo Camanini è l’unico a essere sempre stato tagliato fuori dalle foto di gruppo. Volto sconosciuto ai più, Camanini non ha mai cavalcato i retroscena dei congressi internazionali, ma ha davvero guadagnato sul campo prima la Stella Michelin, entrando a pieno titolo nel gotha della gastronomia internazionale, poi nel 2019 ha vinto il Miele “One To Watch” e quest’anno ha sbaragliato tutte le cucine tristellate italiane, posizionandosi 15esimo in classifica nella The World’s 50 Best Restaurants. Tradotto, se venite in Italia, prima di tutti c’è ora Camanini.

Citavo prima Andrea Petrini, considerato tra i 13 Gods of Food per il New York Time e scopritore di talenti e poi ideatore di Gelinaz!, proprio perché, appunto, ne parlò prima di tutti gli altri, quando il suo nome si passava sotto il mantello quasi di nascosto tra pochi conoscenti e filologi apprezzatori come la stampa clandestina sotto la sovietica coltre di piombo. Certo, perché oggi è facile dirsi ‘camaniniani’.

Ps.: scusate, ma ho letto ora la critica di Andrea Petrini allo Spaghettone al burro e lievito di birra di cui sopra. Vi avevo promesso ‘niente recensioni’, ma questa è molto di più. “Gli spaghettoni sono certo per noi un’apoteosi, un’insensata scarica di energia in un dispositivo minimale e sottrattivo. Un azzeramento di effetti, un allacciarsi di affetti raccolti dal burroso e materno ricordo del latte montano, il supporto resistente della granulosa materia spaghettosa, il retto acidoso incedere quasi croccate del lievito di birra ‘caramellizzato’ per ore al forno prima di essere sbriciolato. Un piatto-miracolo. Un piatto-mondo. Un piatto da fine del mondo, deterritorializzato quanto basta per rendere definitivamente caduche tante coordinate spazio-temporali”.

Fiondatevi!

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