Non so se vi è mai capitato di vedere Senza esclusione di colpi, leggendario film del 1988 che lanciò la carriera di Jean-Claude Van Damme. La pellicola era ispirata alla vera storia di Frank Dux, campione americano di arti marziali che nel 1975 vinse un torneo di lotta segreto chiamato Kumite, in cui lottatori di di diverse arti marziali, provenienti da diverse parti del mondo, si sfidavano per decidere chi fosse il più forte. Il film fu un notevole successo economico, e visto con gli occhi di oggi probabilmente pecca di ingenuità; ma l’idea di base è molto forte e la mia vita ne è stata molto influenzata: una competizione di lotta in cui si presentano specialisti di tutti gli stili. C’è il pugile, c’è il lottatore di wrestling, c’è quello del muay thai, quello che lotta a terra e tutti gli altri, e alla fine vince uno solo. La bellezza del Kumite è che riesce a creare il contesto in cui ha senso che stili diversi competano uno con l’altro pur esprimendo il meglio delle loro tradizioni. A dire il vero il film era basato sul solo racconto di Dux, e la totale assenza di prove accessorie ha fatto prevalere nel tempo l’opinione comune che Frank Dux non abbia mai vinto il Kumite, o più ragionevolmente che il Kumite non sia mai esistito. Ma come dicono gli americani, don’t let the truth get in the way of a good story. Io non sono un appassionato di arti marziali, a dire il vero. Il mio principale interesse è la musica. Il mio Kumite, l’incontro (non proprio segreto) tra combattenti che provengono da scuole diverse, è una competizione canora che si svolge in Liguria ogni anno, nel mese di febbraio.
Decenni di sovrastrutture ed una serie pittoresca di eventi e contingenze politiche hanno reso il Festival di Sanremo uno dei momenti chiave del calendario politico dello Stato Italiano, a cui tutti partecipano con uguale cognizione di causa e portando nel menu una serie sterminata di battaglie ideologiche, molto raramente legate alla musica e più spesso basate sull’assunto che Sanremo sia oggi, e nessuno sa dire bene perché, la massima espressione di questa idea genetica del popolo italiano come aggregato, che 15/20 anni fa abbiamo iniziato a chiamare Il Paese Reale. Si profila all’orizzonte una possibile congiuntura politico-sociale per cui due consessi diversi ma identici si troveranno ad eleggere il Presidente della Repubblica e il vincitore di Sanremo a distanza di poche ore. Difficile prevedere quale sarà la reazione del Paese, ma queste cose non portano mai troppa fortuna. Nell’ultima fase storica del Festival, quella iniziata con l’edizione del 2009, c’è un precedente scomodissimo: anno 2014, seconda conduzione Fazio, l’edizione di minor successo del passato recente. Nei giorni della kermesse si stava concludendo la manovra di Matteo Renzi, che la settimana precedente aveva convinto il Partito Democratico a presentare una mozione per sfiduciare Enrico Letta come Presidente del Consiglio e sostituirlo con lo stesso Renzi, il quale aveva giurato il giorno in cui si era svolta la finale. Occorre tenere in considerazione tutti i fattori.
(Nota a margine: parlo di una fase storica iniziata con l’edizione 2009, e forse dovrei spiegare. L’edizione del 2008, condotta da Pippo Baudo, fu un insuccesso piuttosto cocente, che arrivava a coronamento di quasi un decennio in cui il Festival aveva perso importanza nell’immaginario popolare e si era sacrificato a sopravvivere in un clima di quasi-scontro con la discografia. L’edizione del 2008 fu quella in cui una serata del Festival non ebbe, per la prima e ultima volta, la quota più alta di share in quella fascia oraria, e da lì in poi prese forma un involontario colpo di spugna. Pippo Baudo non condusse mai più il festival; si puntò molto sui nomi usciti dai talent-show, sulla presenza social del Festival e su un’idea più orizzontale che diventò l’ossatura del format televisivo su cui Sanremo è basato ancor oggi.)
Ma al di là della congiuntura politica, c’è qualche indizio che ci fa sospettare che anche l’edizione di Sanremo 2022 non sarà la più seguita degli ultimi anni. Per prima cosa è la terza di fila con lo stesso conduttore/direttore artistico, in un’epoca nella quale si tende a girare le carte ogni due anni. E si sta arrivando all’edizione con un carico di polemiche piuttosto ridotto, in parte giustificato dalle grandi capacità di equilibrista di Amadeus ma anche da probabili mancanze di interessi. Le uniche due polemiche che si sono paventate sono piuttosto scariche: la prima, quella legata alla probabile squalifica di Morandi, si è spenta prima di partire a furia di scuse e comunicati stampa (Morandi aveva postato per errore una storia in cui andava in sottofondo un pezzo della sua canzone in gara, che per le regole vigenti lo renderebbe un brano non-inedito, ma la direzione del Festival ha deciso di tenerlo in gara perché il post era dovuto a “un puro inconveniente tecnico, dovuto alla necessità di Morandi di portare un tutore alla mano destra a seguito dell’incidente occorsogli alcuni mesi fa”) (giuro, hanno scritto questo). La seconda è legata alla scelta di Drusilla Foer come co-conduttrice della terza serata, ma è una polemica che si inserisce nella lunga e noiosissima tradizione di un gruppo di politici e non-intellettuali secondo cui Sanremo ha il compito di promuovere valori famigliari che erano in crisi già ai tempi della vittoria di Nilla Pizzi.
Dovessi fare una previsione ex-ante, legata alla sola lista dei nomi in gara, devo ammettere che non credo troppo alla capacità di gran parte dei concorrenti di portare un pezzo clamoroso a questo punto della loro carriera. Le prime anticipazioni parlano di un’edizione piena di canzoni da ballare, forse per aiutare un po’ quelli che fanno i video su TikTok, o forse per inseguire il sogno di un’estate perpetua, come suggerito dal sole che splende in questo gennaio sulla mia terra e dalla presenza di Giusy Ferreri in gara. Ma in fondo poco importa: se c’è qualcosa che abbiamo imparato in decenni di frequentazioni sanremesi è credere nella magia della musica. È il mio primo articolo per un food magazine e mi sento obbligato a spendere una metafora food-oriented: il giudizio ultimo su un ristorante è dato sempre da quello che ti portano sul piatto. La musica ha una caratteristica particolare: se accetti di farti stupire, ti stupirà. Il cinismo anti-sanremese di molti maniaci musicali è ormai pienamente compensato dal fanatismo pro-sanremese di molti altri maniaci musicali, e questo ha dato un certo potere alla selezione musicale del Festival, specie nei giorni del Festival (e, sempre più, nei mesi successivi: pensate ai casi recenti di Mahmood, Gabbani, Maneskin o Colapesce/DiMartino).
Per me? Non so. Credo di aver sviluppato un po’ di cinismo intorno a tutto il carrozzone sanremese, ma dovessi scegliere con quale esercito arruolarmi, andrei senz’altro col primo. Ed ecco perché ogni anno, intorno alla seconda metà di gennaio, inizio a sentire un prurito lungo tutto il corpo: l’avvicinarsi della competizione, la curiosità per le canzoni e i cantanti e il loro stato di forma. Si controlla l’agenda della settimana di Sanremo, si cancellano tutti gli impegni fuori casa, i più devoti organizzano serate a casa di qualcuno. La mia ricetta: trofie al pesto in onore della terra che ospita la kermesse, session ales per non alzare il grado troppo in fretta (la gestione Amadeus è adamantina nel far finire le serate dopo l’una di notte), streaming sul divano. Per la finale mia figlia di nove anni ha il permesso, unica sera in tutto l’anno, di stare alzata fino a che ne ha voglia. L’anno scorso ha perso di poco la premiazione. I cinque per cui tifo io (ma non fatevi influenzare da quel che dice la gente come me): Giovanni Truppi, Dargen D’Amico, Giusi Ferreri, Mahmood/Blanco, La Rappresentante di Lista. Cinque stili diversi, come al Kumite.