Santa Lucia in Sicilia sa di fritto

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L’iconografia religiosa, trasmessa sui santini barattati nelle Chiese al prezzo di un obolo, ritrae Santa Lucia avvolta in un mantello dal color azzurro e con in mano un bel paio di occhi serviti su un piatto di argento. L’agiografia vuole infatti che Lucia, vissuta a Siracusa tra il 283 e il 304, fosse stata promessa in sposa ad un ricco uomo e che si fosse sottratta al matrimonio in virtù di un voto fatto a Sant’Agata, affinché intercedesse per curare la malattia della madre.

Alla scoperta dell’“accordo”, il promesso sposo decise di vendicare l’affronto subito con una denuncia che ebbe per conseguenza la martirizzazione della giovane Lucia e la privazione degli occhi. Un miracolo però li restituì immediatamente alla nostra Santa e ne fece la protettrice della vista e dei non vedenti.

Romanticamente, la data scelta dai devoti per celebrarla cade il 13 Dicembre, data che, antecedentemente all’introduzione del calendario Gregoriano, corrispondeva verosimilmente al solstizio di inverno, il giorno più buio dell’anno.

La tradizione vuole infatti che nel giorno in cui si venera la Santa, non si mangia né pane né pasta, decretando uno dei punti più bassi della dieta mediterranea dell’isola.
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Noi Siciliani, che nelle Sante abbiamo una particolare devozione, non abbiamo perso tempo nell’assegnare – figurativamente – a quel vassoio di argento una tradizione culinaria e a trasformarla da privativa a “gourmet”: la tradizione vuole infatti che nel giorno in cui si venera la Santa, non si mangia né pane né pasta, decretando uno dei punti più bassi della dieta mediterranea dell’isola. Dal momento però che in fondo siamo un po' tutti manciatari (persona a cui piace mangiare), la ricorrenza del 13 Dicembre è festeggiata con un overdose di arancin*, cuccia e gateau di patate – che i non avvezzi ai francesismi chiamano gratò e/o gattò (si noti che il termine arancin* viene presentato in questo articolo con un asterisco per non prendere posizione sulla tormentata vicenda dell’identità di genere dell’alimento in questione).

Se la cuccia, grano bollito condito con ricotta e servito con zuccata, cannella e scorza di arancia grattuggiata, sembra avere un’origine storica nella carestia di Palermo del 1646 – risolta dall’arrivo di una nave carica di grano per intercessione della Santa che i Palermitani non fecero in tempo a trasformare in farina per la fame – la tradizione dell’arancin* è frutto dell’edonismo culinario e dell’approccio gastronomico ipercalorico dei Siciliani.

A Santa Lucia, il consumo pro-capite di riso raggiunge vette da sud-est asiatico, le città odorano di fritto e sul volto delle persone si può scorgere una sorta di euforia. Non c’è nonna, zia, rosticceria o panificio che non si cimenti nella preparazione dell’arancin*.

Se nel passato le uniche versioni conosciute al volgo erano quella accarne (con ragù e piselli) e abburro (con prosciutto e mozzarella), ormai da qualche anno il ripieno dell’arancin* varia nelle forme e nei colori: salmone e spinaci, nero di seppia, salsiccia e funghi, fino all’inenarrabile arancin* alla nutella.

L’arancin* diventa il tutto-pasto della giornata: un* a colazione ad accompagnare il caffè (non un abominio per chi conosce il culto della rosticceria palermitana), due a pranzo, un* defaticante al pomeriggio e un numero imprecisato a sera, dove la compagnia della famiglia ed un certo livello di goliardia la fanno da padrone.

Mentre la giornata del 13 è tutto uno scambiarsi di pronostici su quello che sarà il quantitativo ingerito entro fine giornata, il rito dell’arancin* si completa il giorno successivo con la domanda: quanti ti nni manciasti? (quant* te ne sei mangiat*?).

Una domanda che nella sua innocenza apre la porta a scenari iperbolici, come se dal numero finale ne ricavasse un certo riconoscimento sociale. E nell’esagerazione delle risposte c’è proprio lo spirito della festa, della sua attesa e della sua convivialità.

Buona Santa Lucia a tutti e sbutriativi (ingozzatevi) di arancin*.

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