Se pensiamo agli artisti del passato, ci viene naturale immaginarli legati al mestiere per cui li conosciamo: come un pittore trascorresse le sue giornate tra tele e colori, come uno scrittore trovasse ispirazione per i suoi testi, o quante prove facesse un compositore prima che le sue note lo soddisfacessero.
Meno comune è immaginarli nella propria quotidianità e in ciò che può renderli, ai nostri occhi, più umani e, in un certo senso, più vicini a noi. Come si divertivano? Cosa li faceva arrabbiare?
ArtEat è la nostra rubrica di arte e cibo. Ogni mese, presentiamo un artista (dalla pittura, al cinema, dalla letteratura, alla musica) attraverso il suo legame con l’enogastronomia. Lo facciamo in maniera semiseria, portando storie curiose, inaspettate, talvolta ironiche, ma sempre reali e condite dalle fonti.
D’Annunzio nasce il 12 marzo 1863 a Pescara, in Abruzzo. Amava la cucina della sua terra ma non apprezzava l’atto fisico di mangiare. Interpretava la tavola come un momento di esaltazione estetica, in linea con la sua filosofia di vita. Nutrirsi era per lui una necessità, certo, ma anche un atto grossolano che gli suscitava repulsione e, per questo, cercava nel cibo un coinvolgimento emotivo e di seduzione, come ci racconta il libro “La cuoca di D’Annunzio”, di Santeroni e Milani. “Mi sembra più bestiale e umiliante riempire il triste sacco, rifocillarmi, che abbandonarmi all’orgia più sfrenata e ingegnosa” scriveva d’Annunzio. Idee chiare le sue, che nel piatto desiderava scorgere bellezza e armonia.
Giordano Bruno Guerri, presidente della Fondazione Vittoriale degli italiani, che apre con la sua prefazione il libro appena citato, ci rivela però una curiosità sullo scrittore che forse regala una spiegazione di cotanta avversità nei confronti del mangiare e, soprattutto, del farlo pubblicamente. Sembra che i suoi denti fossero visibilmente rovinati (“un antro nero”, li descrive Guerri) e questo lo imbarazzasse molto.
D’Annunzio amava divertirsi e per lui gli eventi e gli incontri sociali a cui prendeva parte erano sinonimo di grande gioia per la possibilità di fare ciò che oggi definiremmo networking. Perché perdere tempo a mangiare quando si poteva invece chiacchierare o divertirsi, dunque?
Dev’essersi chiesto più o meno questo quando decise di piazzare una tartaruga gigante, detta La Cheli, nella sala in cui accoglieva i suoi ospiti per i pranzi e le cene. Che c’entra una tartaruga con il cibo, vi chiederete?
La marchesa Luisa Casati Stampa regalò al Vate una bellissima tartaruga di nome Carolina che però, a causa della sua ingordigia, morì per indigestione da tuberose. L’artista Renato Brozzi ne riprodusse una simile in bronzo utilizzando il carapace dell’animale (khélys in greco, ecco perché La Cheli). D’Annunzio la espose a capotavola, quasi a osservare i suoi ospiti e a invitarli, neanche troppo velatamente, a mangiare con morigeratezza (non si sa mai che si faccia la fine della Cheli).
Era astemio e affermava che “non si potesse essere un buon ghiottone essendo anche un buon beone”, ma aveva un’interessante cantina per poter accogliere i propri ospiti con le migliori etichette del tempo. Enrico di Carlo, che a D’Annunzio e al suo rapporto con la cucina ha dedicato più di un libro, ci racconta che aveva tessuto le lodi alla Vernaccia di Corniglia e al Nepente di Oliena.
Alt! Perdonate il campanilismo ma io che scrivo sono sarda e mi sento in dovere di rivelarvi qualcosa in più. Il 15 febbraio 1910, D’Annunzio scrisse sul Corriere della Sera un articolo intitolato Un itinerario bacchico che diceva , “…io vi prometto di sacrificare alla vostra sete un boccione d’olente vino d’Oliena serbato da moltissimi anni in memoria della più vasta sbornia di cui sia stato io testimone e complice…. Non conoscete il Nepente di Oliena neppure per fama? Ahi lasso! Io son certo che, se ne beveste un sorso, non vorreste mai più partirvi dall’ombra delle candide rupi, e scegliereste per vostro eremo una di quelle cellette scarpellate nel macigno che i sardi chiamano Domos de janas, per quivi spugnosamente vivere in estasi fra caratello e quarteruolo. Io non lo conosco se non all’odore; e l’odore, indicibile, bastò a inebriarmi.” D’Annunzio ci sta quindi dicendo che ha preso una sbronza col Nepente di Oliena dopo averne sentito il profumo? Pare di sì.
C’è un altro aspetto molto curioso che vale sempre la pena citare quando si parla della relazione fra il Vate e il cibo, ovvero il fatto che avesse una cuoca: una donna che, per più di 30 anni, gli stette accanto soddisfacendo i suoi capricci culinari spesso esposti attraverso lettere che lui le scriveva. Se state pensando che anche a voi sia capitato che qualcuno vi abbia chiesto di cucinare qualcosa di stravagante, ve lo dico, non avete visto niente: personalmente, definirei quelle lettere altre opere letterarie.
La cuoca di D’Annunzio si chiamava Albina Lucarelli Becevello ed era nata nel 1892 nel trevigiano. Lui la soprannominava Cuoca Pingue, Suor Intingola, Suor Indulgenza Plenaria o Suor Ghiottizia. Una delle richieste che le faceva è che abbinasse le pietanze alle amanti del momento. I sindacati avrebbero avuto un bel da fare con questa storia. Tra le sue richieste “una colazione per una foresta che è capitata sotto i miei artigli”, “un piatto freddo col polpettone magistrale per una donna bianca sopra un lino azzurro” o “un sublime risotto alla milanese per una vera meneghina che lo colloca fra le bonissime cose del basso mondo”. Non posso fare a meno di pensare a quella donna che leggeva quelle lettere. La verità, però, è che fu forse l’unica che D’Annunzio ebbe accanto per così tanto tempo senza avere rapporti sessuali.
Sappiamo anche che il Vate avesse una predilezione per le uova. “Cara Albina questa tua frittata, dopo tante altre frittate mediocri, è sublime. Te lo dice un conoscitore, che ha saputo fare le più belle frittate del mondo. […] Accetta questo tenue segno di riconoscenza”. Ok Gabriele, questo egocentrismo sul brillante impiego delle uova in cucina ci ricorda vagamente quello che oggi in Italia abbiamo col tiramisù. Dite la verità: tutti conosciamo qualcuno che dice che “come fa lui il tiramisù non c’è nessuno”, e se non lo conoscete siete stati voi a dirlo.
Ma quindi D’Annunzio amava o non amava il cibo? Chiuderei con le parole di Giordano Bruno Guerri che dice: “Io direi che da un uomo di genio e da un uomo libero non ci si aspettano regole. Mangiava a qualsiasi ora, in qualsiasi modo. L’importante era che tutto fosse molto ben presentato: stoviglie straordinarie, frutta ovunque non solo per mangiarla, ma per la sua gradevolezza di colori e di forme.” Cibo come arte, dunque, ciò che per tutta la vita lo ha accompagnato nelle sue opere.